Gigi Di Lembo ~@0@" IL FEDERALISMO ANARCHICO IN ITALIA ~@0@" DAL RISORGIMENTO ALLA REPUBBLICA (da http://www.zapatapn.org ) Le idee libertarie ed anarchiche hanno molte componenti ma almeno due ne sono i cardini: l'Autogestione e l'Individuo. L'autogestione comporta un concetto astatale e quindi libertario. Implica infatti che gli unici enti autarchici originari siano le varie realtà sociali, produttive, etniche, linguistiche che si amministrano senza mediazione di burocrazie o di autorità a loro esterne. L'Individuo è il fine ultimo ma la sua realizzazione viene vista da questa appartenenza alla realtà autogestionaria. L'autogestione dunque malgrado la sua connotazione astatale, non esclude al suo interno forme decisionali di tipo democratico (maggioranza/minoranza) o di ampia delega. È su questa radice che si basa il federalismo "libertario" connaturato all'autogestione perché riconosciuto insito nelle mutevoli ma permanenti necessità consociative delle varie realtà consociative. Allo stesso modo che l'autogestione non esclude forme di ampia delega, il federalismo libertario non esclude forme di organizzazione statale ridotta alle funzioni essenziali e configura una costruzione dalla periferia al centro. Il federalismo anarchico parte anch'esso dall'autogestione e del resto è l'anarchismo a porne il concetto, ma non si limita ad essere astatale. Il federalismo anarchico è antistatale perché pone come non ulteriore ma primario elemento autarchico l'individuo, che trova il legame con gli altri e le altre realtà non nel "bene comune" ma nella solidarietà volontaria. Rifiuta così non solo il concetto di governo dall'alto ma anche quello della democrazia e della delega. Il federalismo anarchico non riconosce maggioranze o minoranze ma solo l'oggettivo prevalere di una soluzione"tecnica" su altre ed il diritto per chi non condivide quella prevalente di provare la propria. Il concetto di autogestione e di federalismo diventa talmente peculiare nell'anarchismo da renderlo difficilmente compatibile con qualsiasi costruzione di tipo statico e assolutamente incompatibile con quella di tipo statale. Il suo federalismo non è una costruzione dal bassa all'alto ma nemmeno dalla periferia al centro, è tendenzialmente una costruzione orizzontale. Questo opuscolo è una ricostruzione del farsi storico di questo aspetto delle idee libertarie e anarchiche, dei loro incontro e dei loro scontri, del loro impatto nella cultura della sinistra italiana prima che la seconda guerra mondiale e poi la guerra fredda rendessero per lungo tempo quasi inascoltate le ipotesi autogestionarie. Premessa Le idee federaliste nel primo risorgimento: da Carlo Cattaneo a Carlo Pisacane L'idea federalista fu ben presente nel movimento per l'unità d'Italia. Non è un caso che le prime proposte in tal senso vengono, nel trentennio postnapoleonico, dagli ambienti cattolici più "avanzati". Di fronte alle continue insorgenze liberali che ponevano l'Italia all'avanguardia delle inquietudini dell'Europa della "restaurazione", erano stati i cattolici Niccolò Tommaseo e Vincenzo Gioberti a proporre una Federazione tra gli esistenti stati italiani, sotto il patronato pontificio, in funzione antiaustriaca ma assieme rassicurante per Vienna, liberaleggiante ma assieme moderata per le varie dinastie della penisola. In pratica era una soluzione diplomatica, tra stato e stato, atta a dare lo sbocco più indolore possibile alle richieste di partecipazione al potere della borghesia (richiesta di una Costituzione). Una borghesia che vedeva giustamente i maggiori ostacoli alla propria ascesa nell'Austria e nel Vaticano, in quanto tutori dell'assolutismo teocratico monarchico (richiesta dell'unità). In questo quadro la soluzione federalista alla Gioberti non aveva veramente senso e venne nei fatti travolta dalle insurrezioni del 1848, di fronte alle quali i regnanti italiani, Papa compreso, dopo aver giurato costituzioni liberali e guerra all'Austria, chiamarono quest'ultima a ristabilire l'ordine assoluto. Il '48 fu il momento delle insurrezioni in nome della repubblica da Palermo a Milano, da Venezia a Roma e se qui ci fu la repubblica unitaria di Mazzini, a Milano ci fu quella federalista di Cattaneo e Ferrari. Del resto tra i difensori di Roma, Garibaldi era tendenzialmente federalista e Pisacane ne sarebbe diventato l'esponente più radicale. Il federalismo di questi esponenti era accomunato da una visione rivoluzionaria e non diplomatica del problema. Un fattore che lo distingueva nettamente dal federalismo cattolico ma non per questo era omogeneo al suo interno, anzi. Abbiamo accennato a Mazzini come unitario. Mazzini in verità articola la futura sistemazione istituzionale del paese in un Governo centrale, rappresentante la Nazione e direi quasi il concetto di Nazione, ma contro bilanciato da una ampia libertà dei Comuni urbani. Questi avrebbero dovuto inglobare anche i distretti rurali, visti come passivi ed arretrati. Tra i due poli, governo centrale e comune urbano, le Regioni che già prefigurava in 12. In pratica un macchinoso decentramento a tavolino sulla falsa riga delle esperienze dei giacobini francesi che nulla lasciava ad un genuino federalismo. Per quanto riguarda Garibaldi, il suo federalismo rispondeva all'anelito di libertà che questi portò in tutta la sua azione politica e militare ma non ebbe mai spessore teorico e, come vedremo, fu comunque subalterno al suo pragmatismo operativo. Con Carlo Cattaneo entriamo nell'area culturale e politica che elabora con ben altra articolazione l'idea dell'autonomismo e diventa vero e proprio federalismo. Federalismo non solo come strumento di buon governo ma come pietra angolare dell'unificazione ed anzi come vero movente di questa. Così all'indomani delle "cinque giornate di Milano" Cattaneo non esita ad attaccare Mazzini e dargli di venduto perché chiedeva l'intervento sabaudo. La posizione di Cattaneo non si basava su concezioni di mitici primati della nazione italiana ma su solide analisi scientifiche , sull'altrettanto solido buon senso lombardo e sullo studio della tradizione amministrativa austriaca. Elementi sostenuti da un profondo ideale di vita civile. In sostanza partiva dalla unicità nella diversità del mondo sia sul piano culturale che economico: "I popoli devono farsi continuo specchio fra loro perché gli interessi della civiltà sono solidari e comuni; perché la scienza è un'arte, l'arte è una, la gloria è una. La nazione degli uomini studiosi è una sola, è la nazione di Omero e di Dante, di Galileo e di Bacone, di Volta e di Linneo. ...È la nazione delle intelligenze che abitano tutti i climi e parla tutte le lingue." Di qui la critica ad ogni pretesa di "primato italiano" tanto caro a Mazzini. "Noi abbiamo per fermo che l'Italia debba tenersi soprattutto all'unisono coll'Europa e non accarezzare altro nazional sentimento che quello di serbare un nobil posto nell'associazione scientifica dell'Europa e del mondo" Sul piano economico poi per Cattaneo era ancor più evidente l'interdipendenza dello sviluppo. Era da queste premesse che Cattaneo arrivava al federalismo più radicale in campo repubblicano. "Ogni stato italiano istituisca il proprio regime rappresentativo, i singoli stati si confederino con un patto di solidarietà perpetua contro ogni pericolo esterno. Ciascuno stato proceda alla Federazione Italiana quel tanto di sovranità locale che sia necessario per assicurare solidità al nodo nazionale" Sovranità rappresentata da un Parlamento Nazionale che Cattaneo configura, più che altro, come una Alta Corte di Cassazione delle norme locali palesemente contrarie agli interessi nazionali. Parlo di "locale" e di norme "locali" perchè nel pensiero di Cattaneo i soggetti non erano tanto gli stati territoriali così come si erano andati configurando nella penisola, ma le "patrie locali":"Chi prescinde da questo amore delle patrie locali seminerà sempre sulla rena" Di qui la difesa di Cattaneo, ancora una volta in polemica con Mazzini, del diritto anche del più piccolo comune a mantenere il modo d'essere che gli era proprio"anche se odioso ai suoi vicini". Questa la sua idea centrale che spiega appieno la limitazione delle funzioni del parlamento nazionale: La costruzione di Cattaneo del futuro stato federale italiano non prescindeva dalla organizzazione democratica della sua funzione essenziale: la difesa. Uno stato veramente federale non poteva avere un esercito stanziale a tipo francese o piemontese, che allora costringeva una parte minima della popolazione a lunghe ferme sotto gerarchie di carriera. Gerarchie che divenivano ben presto caste chiuse e reazionarie. Un esercito molto costoso ed inoltre al momento decisivo, quello dello scontro, inadatto a suscitare la partecipazione viva di tutte le forze nazionali. Lo stato federale poteva poggiare solo sulla "nazione armata" sul modello elvetico. In Cattaneo non è assente la preoccupazione verso le disuguaglianze sociali, anzi, ma queste sono viste già risolvibili nella sua impostazione politico democratica fondata sul policentrismo. Chi introduce il fattore della eliminazione delle diseguaglianze sociali come motivo necessario alla unificazione federale è Giuseppe Ferrari. Ferrari vive a lungo a Parigi dove stringe amicizia con Proudhon. Come noto quest'ultimo fu uno dei primi a delineare un Federalismo che prescinde dallo Stato e che sposta il soggetto dalle organizzazioni politiche alle libere associazioni sociali o produttive in quanto tali. Questo accompagnato ad una critica radicale della Proprietà. In altri termini il federalismo con Proudhon passa da repubblicano statale a libertario. Ferrari non si pone automaticamente su quella linea. Rimane nell'ambito repubblicano non negatore dello stato o della proprietà in assoluto, ma certo elabora teorie simili e sotto certi aspetti, a mio avviso, più articolate e concrete: "La missione della rivoluzione non è di combattere l'interesse del denaro o l'affitto dei campi e delle case, ma bensì di combattere direttamente l'ineguaglianza primitiva dei beni, il riparto attuale delle fortune sociali, la distribuzione vigente delle ricchezze.". Di qui l'attacco al principio della ereditarietà come "vera fonte di ineguaglianza" perché è questa a generare un ricco di nascita condannato ad avere una possibilità di istruzione, di ricchezza e di comando,tale da renderlo incapace di confrontarsi con la gran parte dei cittadini della sua comunità fino a renderlo malefico a sé e agli altri. "Il vero problema sociale non cade sul principio di proprietà ma sui limiti suoi, i quali si determinano come tutti i diritti e cioè colla misura dell'utile sancita dal sentimento". In altri termini, per Ferrari "il diritto di proprietà cessa laddove nuoce all'interesse generale e sociale". In Ferrari il nesso con il Federalismo è dato appunto anche da questo concetto dell'"utile sancito dal sentimento" la cui determinazione può essere valutata solo dalle comunità locali. I comuni non solo come espressione di autonomie politiche ma forme di autorganizzazioni sociali ed economiche. Anzi sono essi la muscolatura del corpo nazionale ma che per essere pienamente tali devono ineluttabilmente federarsi dal basso. Su questo solco si pone Carlo Pisacane che porta alle estreme conseguenze l'interpretazione sociale del problema e lo rielabora con altri elementi fino a congiungersi in pieno con la nuove correnti rivoluzionarie che stavano appunto sorgendo in tutta Europa: quelle del socialismo. I - Carlo Pisacane: verso il federalismo anarchico Pisacane dopo il '48 comincia a riflettere appassionatamente sulle cause del fallimento di quella rivoluzione che aveva investito non solo l'Italia ma l'intero continente. È esule, a contatto con Ferrari, con Proudhon, come lo era stato con Cattaneo. Si allontana da Mazzini e si avvicina a Owen e agli scritti di altri precursori del socialismo come Fourier. Pisacane sulla base di quegli studi e delle sue personali esperienze elabora allora per primo una interpretazione classista dei fatti d'Italia, ed assieme a questa teorizza l'assoluto valore operativo e non solo etico della libertà e della volontà individuale. Infine espone l'inconsistenza ai fini liberatori della propaganda se non "per fatti". Per Pisacane quella in atto in Italia non era una lotta di popolo ma della borghesia contro l'assolutismo per impadronirsi della cosa pubblica, ma certo la propaganda dei liberali e l'odio contro lo straniero avevano preso a penetrare anche nelle masse "le quali forse non comprendevano quello che dalli agitatori si voleva ma cominciavano a sentire il bisogno di migliorare" ed erano ormai pronte alla rivoluzione. Ma quale rivoluzione? "Che sia un Re, un Presidente, un Triunvirato a capo del governo, la schiavitù del popolo non cessa se non cambia la costituzione sociale". Questo non avevano capito i mazziniani nel '48 quando si erano limitati alla rivoluzione"formale" ( cioè politico - borghese). Non appellarsi ai bisogni del popolo aveva isolato da quest'ultimo la rivoluzione nazionale. Bisognava agitare gli interessi materiali delle classi popolari e seminarvi il germe del socialismo. Questo era in Italia il compito di un vero partito rivoluzionario quale non era stato in grado di essere quello mazziniano. "lo son convinto che le strade di ferro, i telegrafi elettrici, le macchine, i miglioramenti dell'industria, tutto ciò finalmente che sviluppa e facilita il commercio è a una legge fatale destinato ad impoverare le masse fino a che il riparto dei benefizi sia fatto dalla concorrenza. Tutti quei mezzi aumentano i prodotti ma li accumulano in un piccolo numero di mani, dal che deriva che il tanto vantato progresso termina per non essere altro che decadenza. Se tali pretesi miglioramenti si considerano come progresso, questo sarà nel senso di aumentare la miseria del povero per spingerlo infallibilmente a una terribile rivoluzione, la quale cambiando l'ordine sociale metterà a profitto di tutti ciò che ora riesce a profitto di alcuni. Il frutto del proprio lavoro garentito, tutt'altra proprietà non solo abolita, ma dalle leggi fulminata come furto, dovrà essere la chiave del nuovo edifizio sociale..." Un nuovo "edifizio sociale" che, secondo Pisacane,quando fosse costituito, "nei suoi reali e necessari rapporti, esclude ogni idea di governo e, come ben equilibrato edifizio, regge da sè, senza bisogno di fasciature e di rinfianchi". Queste idee Pisacane le puntualizza in un Programma per la rivoluzione in Italia che vede prossima e che intende in tutti i modi accelerare. A quel programma pone come preambolo i seguenti principi: " Ogni individuo ha il diritto di godere di tutti i mezzi materiali di cui dispone la società onde dar pieno sviluppo alle sue facoltà fisiche e morali. Oggetto principale del patto sociale, il garentire ad ognuno la libertà assoluta. Indipendenza assoluta di vita, ovvero completa proprietà del proprio essere, epperò: a) l'usufruttazione dell'uomo per l'uomo abolita. b) Abolizione di ogni contratto ove non siavi pieno consenso delle parti contraenti. c) Godimento de' mezzi materiali, indispensabili al lavoro con cui deve provvedersi alla propria esistenza. d) Il frutto dei propri lavori sacro ed inviolabile [punto 3]. Sul piano politico premetteva: "I bisogni sono i limiti della LIBERTÀ e della INDIPENDENZA. Questa legge è innegabile ed universalmente sentita. Ogni altra legge o principio non sentito ma predicato... e la gerarchia che viola direttamente libertà ed indipendenza, è contro natura.", ed arrivava coerentemente alle conseguenze:"Le gerarchie, I' autorità, violazione manifesta delle leggi di Natura, vanno abolite. La piramide: Dio, il re, i migliori, la plebe, adeguata alla base ." Sul piano istituzionale non era meno coerente:"Come ogni italiano non può essere che libero ed indipendente, del pari dovrà esserlo ogni Comune. Come è assurda la gerarchia tra gli individui, lo è fra i Comuni. Ogni Comune non può essere che una libera associazione d'individui e la Nazione una libera associazione dei Comuni... L'imporsi per un dato tempo un governo o un assemblea è un assurdo, come lo è per un individuo il costringersi da un voto. È lo stesso che dichiarare la volontà e la determinazione di un momento, arbitra e tiranna della volontà che progressivamente può manifestarsi in avvenire. Di quinci i principi che seguono: - le leggi non possono imporsi ma proporsi alla Nazione. - 1 mandatari sono sempre revocabili dai mandanti. - Ogni funzionario non potrà che essere eletto dal popolo e sarà sempre dal popolo revocabile. - Qualunque nucleo di cittadini, dalla società destinati a compiere una speciale missione, hanno il diritto di distribuirsi eglino medesimi le varie funzioni ed eleggersi i propri capi.... Nel 1857 è con queste idee che si muove per sollevare Napoli e di lì il mezzogiorno che vedeva, non solo da una angolatura militare, come il punto più esplosivo del paese. Alla vigilia di imbarcarsi a Genova per Sapri scriveva nel suo Testamento politico: "lo son convinto che i rimedi temperati, come il regime costituzionale del Piemonte e le migliorie progressive accordate alla Lombardia, ben lungi da far avanzare il risorgimento d'Italia, non possono che ritardarlo. Per quanto mi riguarda, io non farei il più piccolo sacrifizio per cambiare un ministero o per ottenere una costituzione... lo credo fermamente che se il Piemonte fosse stato governato nello stesso modo che lo furono gli altri Stati italiani, la rivoluzione d'Italia sarebbe a quest'ora compiuta. Questa opinione pronunciatissima deriva in me dalla profonda mia convinzione di essere la propagazione dell'idea una chimera e l'istruzione popolare una assurdità. Le Idee nascono dai fatti e non questi da quelle, e il popolo non sarà libero perché istrutto ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero... L'intervento della baionetta a Milano ha prodotto una propaganda più efficace che mille volumi scritti dai dottrinari, che sono la vera peste del nostro paese e del mondo intiero. Vi sono persone che dicono: la rivoluzione deve essere fatta dal paese. Ciò è incontestabile. Ma il paese è composto da individui, e se attendessero tranquillamente il giorno della rivoluzione senza prepararla colla cospirazione, la rivoluzione non scoppierebbe mai... lo non ho la pretesa, come molti oziosi me ne accusano per giustificare se stessi, di essere il salvatore della patria. No. Ma io sono convinto che nel mezzogiorno d'Italia, la rivoluzione morale esiste: che un impulso energico può spingere la popolazione a tentare un movimento decisivo ed è perciò che i miei sforzi si sono diretti al compimento di una cospirazione che deve dare questo impulso... Semplice individuo, quantunque sia sostenuto da un numero assai grande di uomini generosi , io non posso che ciò fare e lo faccio. Il resto dipende dal paese e non da me. lo non ho che la vita mia da sacrificare per quello scopo ed in questo sacrifizio non esito punto... A quelli che diranno [in caso di fallimento] che l'impresa era d'impossibile riuscita, io rispondo che se prima di combinare di tali imprese si dovesse ottenere l'approvazione del mondo bisognerebbe rinunziarvi" Non so fino a che punto Pisacane ne fosse cosciente ma,per certo, aveva delineato nella sua essenza non solo il federalismo anarchico ma l'anarchismo stesso almeno nella sua formulazione italiana. L'impresa di Pisacane fu stroncata a Sapri dalla mancata insurrezione di Napoli, dove i cospiratori non erano stati all'altezza della situazione. Quel fallimento fu la pietra tombale di una soluzione non solo federale e libertaria, ma anche realmente liberal democratica del risorgimento italiano. Ili- Unificazione e post-unificazione Cavour, al governo dell' unico stato che aveva mantenuto la costituzione giurata nel 1848 e che aveva ceduto agli austriaci solo dopo dure sconfitte, di fronte al tingersi di socialismo antistatale del movimento rivoluzionario, ebbe buon gioco a piegare alla soluzione sabauda anche chi, come Mazzini, era repubblicano ma fieramente unitario e anticlassista,e chi come Garibaldi, era un movimentista nato ma assillato dai problemi strategici di una guerra contro l'Austria che rimaneva la più grande potenza continentale. Sui ceti possidenti la sua opera di persuasione non fu difficile. Questi avevano intuito dai fatti del '48 quali sconvolgimenti anche sociali potevano attendersi da una vera e propria rivoluzione, ed erano ormai in gran parte disponibili ad una unificazione sotto la rassicurante monarchia dei Savoia. Valga per tutti l'esempio di Bettino Ricasoli, rappresentante della più antica ed orgogliosa nobiltà imprenditoriale toscana.. Dove fu veramente abile fu in campo internazionale, riuscendo a convincere Francia ed Inghilterra che l'Italia, se non unita sotto i Savoia, poteva diventare la culla di un pericoloso focolaio rivoluzionario non solo nazionale ma sociale. Così strappò un alleanza alla Francia, che dette al Piemonte la Lombardia, e a Londra un appoggio che coprì l'impresa dei mille. Pisacane aveva visto giusto considerando il meridione maturo per la rivoluzione. Ai mille di Garibaldi che, tre anni dopo, risalirono il mezzogiorno, fecero da avanguardia e retroguardia le rivoluzioni contadine che tagliavano l'erba sotto i piedi alHantico" regime. Ma Garibaldi non era Pisacane e molti dei suoi ufficiali, anche se erano stati con Pisacane o ne avevano apprezzate le idee, erano ancora ipnotizzati dall' UNITÀ a tutti i costi,dal prestigio di Mazzini e soprattutto di Garibaldi, allora logicamente alle stelle. L'ultima parola toccò in sostanza proprio a lui. A Napoli liberata arrivarono sia Cattaneo che gli inviati di Mazzini. L'uno perorando l'idea federalista, gli altri quella di proclamare subito una repubblica da cui partire per scalzare i Savoia. Garibaldi si trovava di fronte ad una complessa situazione internazionale che poteva trasformarsi da un momento all'altro da favorevole a sfavorevole. Preferì consolidare quanto fatto in attesa di tempi migliori, rigettando i suggerimenti degli uni e degli altri. Ma al fondo la scelta l'aveva già fatta quando, invece di mettersi alla testa della rivoluzione contadina, aveva ordinato ai suoi comandanti di sparare sulla gente. E la gente del sud, in nome di quella stessa rivoluzione tradita da Garibaldi, non aveva messo molto tempo a schierarsi su posizioni di rinnovata lealtà a Franceschiello che, messo alle strette, tutto prometteva al popolo contro la nobiltà che lo aveva tradito. Quando Garibaldi entrò a Napoli, era già iniziata quella guerra sociale chiamata "brigantaggio", che in quattro anni costò più vite, e soprattutto innocenti, di tutte le guerre del "Risorgimento". Una guerra condotta da ambo i lati con tale barbarie da seccare letteralmente l'anelito liberatorio che era stato il motore primo del movimento unitario. Su quelle basi lo stato italiano nacque estremamente accentratoro e diffidente verso ogni istanza sociale. Questa fu vista pericolosa non solo verso il concetto di proprietà ma anche verso quello di unità nazionale, ormai identificata nella soluzione sabauda. Basti pensare alle fobie dell'ultimo Crispi che, a più di venti anni dall'unificazione, vedeva nei moti della fame, nati nella sua terra, una manovra francese per smembrare l'Italia. Rimase comunque, ed anzi si accentuò, il problema di dare un equilibrio stabile ad uno stato in cui erano confluite tradizioni amministrative, legislative, culturali e linguistiche, profondamente diverse. Non per nulla il primo a pensare in termini di decentramento fu lo stesso Cavour, e dopo di lui, meno Giolitti, quasi tutti gli altri presidenti del consiglio; in particolare Minghetti e lo stesso Crispi prima maniera. Ma furono tutti progetti di "decentramento" visto in senso amministrativo e mai come le basi per un generale riassetto del paese. Comunque le lobby parlamentari ebbero sempre buon gioco ad affossare anche quei progetti, gelose delle proprie prerogative e timorose della carica sociale che andavano sempre più assumendo i concetti autonomisti. In realtà in Italia già il primo periodo postunitario fu caratterizzato dalla nascita della cosiddetta "questione sociale". A Napoli un gruppo di elementi di primo piano del movimento garibaldino e conoscitori di Pisacane, come Giuseppe Fanelli e Saverio Friscia, si pongono il problema di quanto fino allora fatto. Hanno partecipato alla repressione del brigantaggio ma proprio per questo conoscono bene la miserabile condizione contadina e l'asfissiante burocrazia piemontese. Pur repubblicani non rinnegano l'edificio nazionale che hanno contribuito a costruire, ma proprio per questo vogliono dargli un nuovo contenuto. Un contenuto che non più essere la sola formula mazziniana di repubblica e cooperazione. Fondano una rivista: "Libertà e Giustizia", dove per giustizia non si intende più quella formale ma quella sociale, e per libertà quella delle concrete autonomie. Stendono un programma che al punto XII chiede: " Il riordinamento delle libertà comunali e provinciali sulle basi di una completa autonomia amministrativa, derivante dal suffragio universale, con pochi funzionari eletti e ben pagati, ma però soggetti alla più seria responsabilità nell'esercizio delle loro funzioni. Il discentramento alleggerirebbe assai sensibilmente i bilanci passavi e darebbe ai Comuni e alle Provincie il più largo sviluppo locale e si avrebbe così nel Comune, il compimento dei bisogni ed interessi di tutti i suoi abitanti, nella Provincia, l'espressione ed il compimento di tutti i Comuni, nella Nazione la espressione e il compimento dei bisogni e degli interessi di tutte le provincie. Costituirebbe così libera e vivente l'unità della Nazione, non già questa unità centralistica e burocratica, bancaria e militare, nel di cui nome ed interesse siam tutti come fummo, oppressi e rovinati: realizzerebessi così l'abolizione di quella grande enormità che si chiama Gendarmeria o Polizia di Stato, attribuendosi ai Comuni e alle Provincie, le competenze della publica sicurezza." Forse siamo più vicini al pensiero di Cattaneo che all'audacia di Pisacane eppure la via intrapresa dai napoletani avrebbe trovato sbocco su quest'ultimo. A fare da lievito, fino alle estreme conseguenze, di quelle prime riflessioni nell'Italia ormai unita, fu Michael Bakunin. IV- Bakunin in Italia e la Comune di Parigi Bakunin arriva in Italia a metà degli anni '60, evaso dalla Siberia. È condotto nel nostro paese dal mito delle imprese di Garibaldi. Un mito che aveva conquistato tutta la sinistra europea e non. Nel frattempo (settembre 1864) gli animatori di quel socialismo coi quali era stato in contatto anche Pisacane, si erano dati una vera e propria organizzazione con un nome ambizioso e che in effetti di li a poco divenne l'incubo dei governi borghesi:" Association Internationale des Travailleurs: AIT",in italiano L'Internazionale. Era nata più che altro per iniziativa di varie organizzazioni di lavoratori, inglesi, francesi e tedesche ma anche con l'appoggio dei rivoluzionari di tutta europa. Marx e Engels, tra i tedeschi, Lassalle e Proudhon tra i francesi. Fra gli italiani Mazzini e Amilcare Cipriani e non mancò la benedizione di Garibaldi. Appena riuscito a raggiungere l'occidente Bakunin aderisce a quella nuova organizzazione. Comunque anche Bakunin è in un momento di riflessione sulle esperienze fatte nelle rivoluzioni e nelle galere di mezza Europa, una riflessione, non per nulla, soprattutto sui limiti dei movimenti nazionali e repubblicani. I contatti con le disillusioni ed i fermenti della ultrasinistra italiana di allora, ed in particolare con quella di Napoli, dove si stabilisce dopo avere saggiato Firenze, funzionano da catalizzatori per il suo pensiero che si definisce in modo definitivamente anarchico. A sua volta il pensiero di quel rivoluzionario russo ed il suo carisma funzionano da detonatore per le disillusioni della "vecchia" guardia garibaldina e repubblicana, come per le irrequietezze della nuova che va cercando obiettivi più concreti del mazzinianesimo. II pensiero che allora Bakunin distillò in Italia è la pietra angolare dell'anarchismo come storicamente venne inteso in tutto il mondo avviato all'industrializzazione. Dall'Europa alle Americhe e poi fino in Cina e Giappone ma seppure con un respiro universale e con altri spessori, l'anarchismo nasce con Bakunin in Italia sulle stesse linee di pensiero di Pisacane. In particolare, dal punto di vista della nostra analisi, il federalismo ne è coessenziale. Oltre che nel nostro paese, dove a Napoli già nel '69 Bakunin può fondare una sezione dell'Ali", la sua impostazione attecchisce in Spagna, nella Svizzera, e fin nella lontana Svezia. Soprattutto si afferma, accanto e spesso in aspro confronto, con quella di Proudhon, in Francia. A rendere prorompente l'anarchismo saranno proprio gli avvenimenti di Francia, 0 meglio di Parigi, con la proclamazione de "la Commune" ed il durissimo dibattito che ne seguì nella sinistra europea. Il 18 marzo 1871, l'insorgere, in nome dell'autogestione dei lavoratori e del federalismo, del Comune di Parigi contro la repubblica borghese, autoelettasi il 2 settembre per meglio capitolare ai prussiani,vincitori su Napoleone III, sommuove il mondo delle sinistre. La terribile determinatezza del popolo di Parigi nella resistenza,alla quale partecipano molti italiani tra cui il Cipriani, e la feroce repressione della soldataglia "repubblicana" fecero il resto. Si creò allora un mito che troverà uguali solo mezzo secolo dopo con la rivoluzione bolscevica, e ne venne ucciso un altro:quello della Repubblica come portatrice di libertà. Kropotkin osserverà,anni dopo: "Con il nome di Comune di Parigi nacque un idea nuova chiamata a diventare il punto di partenza delle rivoluzioni future". Questa idea era quella federalista, che, come sosteneva Berneri, per Kropotkin era sinonimo di idea libertaria. 1 "comunardi" furono accusati di essere stati mossi dall'Internazionale e questo fece un mito, tra le sinistre e nel popolo, dell'AIT e di tutte le idee libertarie e federaliste contro il concetto di stato nazionale ed accentrato, fosse monarchico o repubblicano. Questo intuì subito Mazzini che si schierò duramente contro i comunardi, come all'opposto Garibaldi che, forse memore dell'esperienza italiana e comunque partecipe di quella francese del momento, prese decisamente le parti dei parigini. In quella frattura, che colpiva in modo particolare la sinistra italiana, Bakunin si mosse come un ariete per scalzare dalle fondamenta l'egemonia immobilista del "predicato", per dirla alla Pisacane, mazzinano. E Bakunin colpì sopratutto, al pari di Pisacane, sulla concezione formale della rivoluzione e sulla concezione dello stato così come Mazzini l'aveva sviluppata e cristallizzata durante il risorgimento. Bakunin picchiò soprattutto sull'inconsistenza del comunalismo di Mazzini. "Egli pretende che per controbilanciare l'onnipotenza della Repubblica, fortemente costituita, basterà l'autonomia dei Comuni. Mazzini sbaglia. Nessun comune isolato sarebbe capace di resistere alla potenza di quella formidabile centralizzazione. Tra il federalismo rigorosamente conseguente e il regime burocratico non c'è via di mezzo. Ne consegue che la Repubblica voluta da Mazzini sarebbe uno stato burocratico, per ciò stesso militare, fondato non più in vista della giustizia internazionale o della libertà interna, ma unicamente in vista della potenza esterna. Nel 1793, sotto il regime del terrore, i comuni di Francia furono riconosciuti autonomi, ciò che non potè impedire che venissero schiacciati dal despotismo rivoluzionario della Convenzione... di Parigi di cui Napoleone fu il naturale erede." Alla fine di quel 1871 dell'egemonia di Mazzini sulla sinistra italiana rimaneva ben poco. La sinistra si avviava a porre come problema centrale la rivoluzione sociale al posto di quella politico-nazionale, l'autogestione federalista al posto dello stato centrale. V- La Federazione Italiana della AIT A maggio del 1872 Fanelli ed il giovane Carlo Cafiero, anch'egli esponente della intellighenzia meridionale e da tempo legato alla AIT, incontrano a Locamo, Bakunin per gettare le basi della Federazione Italiana dell'AIT. La Federazione nasce due mesi dopo a Rimini e si da una organizzazione altamente policentrica che vuole prefigurare anche in sè, i nuovi assetti istituzionali e sociali. È aperta ai gruppi e società di mestiere e di lavoratori, federati secondo le affinità regionali. Suoi unici organi "centrali": una Commissione di Corrispondenza ed una Commissione di Statistica, delegate di volta in volta al gruppo più idoneo al momento per svolgerne i compiti. Tutte le scelte generali demandate esclusivamente ai Congressi, ai cui deliberati sono comunque tenute solo quelle sezioni che li abbiano votati. Questa volta, per i libertari, il nemico da battere non è più Mazzini ma Marx e l'impostazione che sta cercando di dare all'Internazionale dopo la repressione della Comune. I libertari si ponevano sul piano della lotta di classe ma con l'obiettivo di eliminare la divisione di classi. Secondo loro porre, come Marx, l'obiettivo di mettere il proletariato nelle condizioni di impadronirsi del potere politico, senza una critica demolitrice di quest'ultimo, voleva dire fare del proletariato una nuova classe dominante e sfruttatrice. Per i libertari l'unica possibilità di rovesciare e rinnovare dalle fondamenta i rapporti di forza nella società dell'epoca era di disgregare lo stato e far nascere, dallo sfascio di quello, una società fondata sull'autogestione individuale e di gruppo. Di contro per Marx l'Internazionale doveva entrare nel gioco politico e tendere a conquistare lo Stato. Il problema del suo deperimento sarebbe stato risolto dai nuovi tipi di produzione, connessi alla presa del potere del proletariato. Lo scontro tra le due impostazioni era inevitabile e a guidarlo fu proprio la giovanissima Federazione Italiana, che rivendicò il principio federalista in primis proprio all'interno dell'Internazionale. La reazione di Marx non si fece attendere e fu emblematica per il metodo usato. Il 2 settembre 1872, riunì all'Aja, il Consiglio Generale dell'AIT per formalizzare l'espulsione di Bakunin e dei suoi. Non ebbe problemi perchè non trovò interlocutori. Le uniche federazioni realmente vive e non solo sulla carta, dopo la distruzione di quella francese in seguito alla Comune, erano la Svizzera, l'Italiana e la Spagnola. Queste avevano deciso di ignorare il Consiglio Generale per trovarsi a Congresso in Svizzera, a Saint Imier. Fu qui che i libertari presero in mano l'Internazionale. A Marx non rimase che spostare il suo Consiglio Generale a New York, dove divenne uno stato maggiore senza eserciti. Era cominciata la grande stagione dell'Internazionale libertaria. Otto mesi dopo Saint Imier, in Spagna Amedeo di Savoia dovette rinunciare al trono e venne proclamata la repubblica. Una repubblica che, sotto la spinta del proudhoniano Pi y Mirgall e della consistente tendenza internazionalista al Sud, si organizzò prima in Federale e poi in Cantonale, mentre espropriava il clero e i latifondisti. Presto dovette affrontare la reazione carlista del nord e soccombere. Per gli internazionalisti comunque era stata una grande scintilla che molto prometteva, e ancora una volta gli avvenimenti di Spagna ebbero ripercussioni in Italia. L'anno dopo infatti è la volta degli italiani che cercano di organizzare un'insurrezione che vada dalle Romagne alla Toscana fino alla Puglia. Infine, nella primavera del 1877, la cosiddetta "banda del matese", guidata da Cafiero e dalla nuova recluta Errico Malatesta, ripropone l'attacco allo stato dal Sud contadino. Tutti questi tentativi vengono stroncati e l'Internazionale messa fuori legge come associazione a delinquere. In questa già pesantissima situazione repressiva, in Italia si aggiunse, in vista dell'ormai imminente allargamento del suffragio, il passaggio di Andrea Costa, che era uno dei più amati leader della Federazione Italiana, a posizioni favorevoli anche ad una lotta politica interna alle istituzioni. Siamo nel 1880 ed inizia l'eclissi dell'Internazionale libertaria, malgrado il tenace sforzo di Malatesta di ridarle consistenza. I fautori del programma dell'Internazionale ed i loro eredi si manterranno come una componente ormai ben precisa del movimento operaio: quella anarchica, ma saranno solo una corrente che va man mano diventando minoritaria. Con il diminuire del suo peso specifico nel movimento operaio va di pari passo l'affievolirsi delle istanze federative. VI- L'eclissi dell'idea federalista negli anni a cavallo del secolo II Partito Socialista Rivoluzionario, fondato nel 1881 da Costa, mantiene al suo interno la struttura federativa, ed anche il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, poi Partito Socialista Italiano, che nasce a Genova dieci anni più tardi, farà omaggio, nei primi tempi, a questa radicata tradizione. Il dato di fatto è però che in tutta Europa si era andato affermando un modello, culturale e politico, antitetico a quello libertario. Questo modello proveniva dall'Impero Germanico, ormai potenza egemone nel continente. L'apparente struttura federale che si era dato era, al fondo, solo un appannaggio per le varie feudalità locali spogliate dei loro poteri al momento della unificazione. Quel federalismo nascondeva il più deciso e decisionista centralismo dai tempi di Napoleone. All'interno di questa struttura la socialdemocrazia tedesca aveva scelto per il marxismo e quella scelta aveva sancito la rinnovata e duratura fortuna di quella tendenza. A questo modello si rifaceva esplicitamente il PSI che era voluto nascere proprio per sancire traumaticamente la separazione dalla cultura libertaria ancora prevalente nel movimento operaio italiano ,al di là della consistenza dell'anarchismo organizzato. Così la II Internazionale ,che era stata fondata a Parigi dai socialisti marxisti o comunque parlamentaristi, nel luglio 1889, fu federalista ma solo suo malgrado, e cioè perchè impossibilitata a centralizzare l'azione di partiti ormai completamente immersi nei problemi elettorali e nelle logiche delle proprie politiche nazionali. Su questa mancanza di centralizzazione si appunteranno le critiche di Lenin. Per quanto riguarda il PSI, dopo essersi dato una struttura interna tendenzialmente centralistica, si limitò a chiedere a livello istituzionale decentramenti amministrativi e sempre in coda alle varie proposte governative,financo di Sonnino. Del resto il momento dell'egemonia socialista sul movimento operaio italiano corrisponde alla cosiddetta età di Giolitti. E questi aveva fatto dei Prefetti, strumenti statali di controllo sulle poche autonomie riconosciute, i suoi agenti elettorali. Non è un caso che nell'area socialista, solo l'antigiolittiano e meridionalista Gaetano Salvemini porrà, accanto alla richiesta del suffragio universale, quella di una rifondazione federalistica dello stato. Anche nel campo internazionalista, anzi ormai anarchico, comunque, è evidente un impallidire delle tematiche federalistiche. Non certo sul piano organizzativo - quest'ultimo era ormai connaturato a quelle - né sul piano culturale ma su quello squisitamente politico della scelta degli obiettivi da proporre. Ognuno al fondo è figlio del suo tempo e quello fu il tempo della interpretazione positivista, evoluzionista del mondo, ed in questa chiave venne compreso non solo il marxismo ma anche l'anarchismo. Il maggior teorico, in campo anarchico, di quel momento fu Pietro Kropotkin. Nobile russo, come Bakunin, aveva conosciuto profondamente, nella sua Russia quella degli Zar, la incompetenza e la cialtroneria connaturata ad ogni amministrazione burocratica. Allo stesso modo aveva potuto apprezzare le potenzialità dei comuni contadinki "mir". Praticamente tutti i suoi molti studi,che ebbero una influenza profonda sulla cultura libertaria, vertono sui vari modi di essere state, di essere, e sulle potenzialità future delle tendenze associative e produttive astatali. Come osservò Berneri: "Kropotkin vide che il problema federalista è un problema tecnico, ed egli afferma infatti nel suo libro "La Scienza moderna e l'Anarchia" che l'uomo sarà costretto a trovare nuove forme di organizzazione per le funzioni sociali che lo Stato esplica attraverso la burocrazia e che finché questo non vi sarà, nulla sarà fatto, ma non potè, per la sua vita ora avventurosa ora strettamente scientifica, sviluppare sistematicamente la sua concezione federalistica." Berneri aggiungeva poi, cogliendo veramente i limiti di Kropotkin :"e a tale sviluppo si opponeva, per la parte progettistica, la sua stessa concezione anarchica, nella quale Pelan vital" popolare costituisce l'anima dell'evoluzione nelle sue parziali realizzazioni, varianti all'infinito nello spazio e nel tempo della storia" In altri termini una visione che rimandava alla evoluzione naturale il compito di riassestare la nuova società oggettivamente incamminata verso il mutuo appoggio una volta rotti, come inevitabile,! lacci dello Stato. Pur partendo da altri presupposti e mirando ad altri obiettivi, finì per partecipare a questa filosofia di fondo anche l'anarcosindacalismo, che fu l'altra grande corrente teorica e concreta che il mondo libertario sviluppò in quegli anni. Nel 1895 l'operaio francese Fernard Pellouttier pubblicava un articolo essenziale: "L'anarchismo ed i sindacati operai",dove richiamava gli anarchici non solo alla presenza nel movimento operaio, nel cui solco erano sempre rimasti, ma anche a quello nella lotta sindacale vera e propria. Una lotta non come quella sostenuta dai sindacati marxisti, verticali, corporativi e funzionali agli accordi settoriali. La lotta che proponeva Pellouttier era tutta da reinventare per la ricomposizione dell'unità dei lavoratori, su basi di affinità territoriali, sulla base dei bisogni reali, una lotta che poteva trovare organismi unificanti nelle strutture orizzontali delle Camere del Lavoro, viste come veri e propri centri di autogestione culturale, sindacale e di resistenza. Una impostazione altamente federalista che fece presto breccia in Francia, dove si costituì la CGT, in Spagna, ove si costituì la formidabile CNT, e poi nei paesi latino americani con la COB brasiliana, la FORA argentina, negli Stati Uniti con la IWW. Anche in Italia, ai primi del secolo, prese piede questa corrente che nel 191 1 assieme ai sindacalisti rivoluzionari, si organizzò in vero e proprio sindacato: l'USL L'esclusiva centralità operaia e direi la "completezza" degli organismi anarcosindacalisti finirono però per porre in secondo piano il problema di coagulare su un disegno più generale le forze tendenzialmente federaliste di altri gruppi sociali ed intellettuali magari affini ma difficilmente "sindacabilizzabili". Anche in questo caso la generalizzazione del modello federalista veniva rimandato a dopo il crollo inevitabile del sistema capitalista e dei suoi stati di cui sarebbero state eredi le organizzazioni anarcosindacaliste. Malatesta, definito ancora oggi, rivoluzionario romantico per eccellenza era in realtàun "politico" di razza, individuò con precisione i limiti di Kropotkin e dell'anarcosindacalismo e le sue critiche, almeno in Italia, non caddero del tutto nel vuoto. Ciò non toglie che in quel periodo le realtà operanti nel mondo libertario rimasero quelle legate al kropotkinismo e all'anarcosindacalismo. Così, in sostanza, la concezione federalista autonomista fu per un quarto di secolo quasi esclusivo patrimonio interno ed implicito del mondo libertario e non oggetto di un dibattito politico generale. VII- Il riaprirsi del dibattito sul federalismo dopo la "grande guerra" La situazione delineata venne profondamente mutata, almeno in Italia, dal cataclisma della guerra mondiale. Questa da una parte era stata vinta e ciò dimostrava che nel paese, che aveva retto sul Piave, la coscienza nazionale era ben radicata. Dall'altra peròil prezzo in vite umane era stato mostruoso mentre l'assetto civile, i rapporti tra la società ed i suoi organi di governo e di amministrazione erano andati in pezzi. Lo stesso modo con cui il Regio Governo aveva portato il paese al conflitto (una decisione della Corona e di due suoi ministri, imposta al Parlamento con il ricatto istituzionale e con le agitazioni di piazza) aveva delegittimato l'equilibrio istituzionale dell'Italia post-unitaria e rotto quel patto tra il paese e il Sovrano, implicito a Teano e sancito dai plebisciti. Nell'immediato dopoguerra la sensazione che quelle istituzioni siano tutte da rivedere e rifondare è generalizzata. Ne è un sintomo uno dei più dinamici riformisti socialisti, il livornese Emanuele Modigliani che si batte, con l'appoggio dei vertici della Confederazione Generale del Lavoro, per arrivare ad una "Costituente" che getti ex-novo le basi di quella ltalia,uscita da una bufera che tutto aveva mutato. Un altro elemento che da il grado dei cambiamenti in atto: il ritorno alla vita politica dei cattolici e con un partito secondo solo a quello socialista! I cattolici non sono legati alla tradizione risorgimentale, anzi erano stati i nemici primi dello stato liberale. L'avevano accettato solo con la guerra di Libia. Ormai l'avevano fatto proprio ma portandoci le loro convinzioni ben lontane da quelle dell'establishment postunitario. Da una parte,data la loro impostazione gerarchica, apprezzano il centralismo statale ma dall'altra,dai primi del 900 in poi, avevano costruito la loro forza con una capillare presenza nelle amministrazioni locali. Una volta organizzatisi in partito nazionale intendono valorizzare appieno questo strumento. Don Sturzo, il segretario e l'animatore del Partito Popolare Italiano, prende a simbolo della nuova formazione lo scudo crociato dei comuni medioevali e fa una bandiera della campagna autonomista. Un autonomismo, ben inteso, nel senso del decentramento, come tenne a precisare lui stesso al Congresso di Venezia. "In pratica già allora il PPI si pose come l'erede del filone decentratore del liberalismo postunitario. Un erede credibile essendo un vero partito di massa. È in questo clima che si riapre il dibattito su autonomia e federalismo. Il federalismo, in quanto tale, riprende infatti vigore in certi settori dell'interventismo rivoluzionario e di quello democratico. Alceste De Ambris nella Carta del Carnaro, che stila a Fiume, occupata da D'Annunzio con un colpo militar-rivoluzionario, riprende molti temi dell'autonomismo anarcosindacalista che svilupperà in senso prettamente federalista in Francia, durante l'esilio antifascista. Nel 1921 Salvemini toglie dalla ovatta delle biblioteche alcuni scritti di Cattaneo che pubblica con una brillante introduzione: "Le più belle pagine di Carlo Cattaneo". Nello stesso anno Felice Momigliano pubblica "Carlo Cattaneo e gli Stati Uniti d'Europa" ed Augusto Monti "L'idea federalista nel risorgimento italiano". Anche una parte del Partito Repubblicano, fino ad allora rimasto sostanzialmente sulle posizioni mazziniane, si pone su questa linea. Il promotore di questa "rivoluzione" politico-culturale è Oliviero Zuccarini. Già negli anni prebellici si era mosso per una rivalutazione politica di Cattaneo ma allora senza trovare consensi, in quel dopoguerra può trovare ben altro ascolto. Alla fine del 1920 fonda la rivista di "Critica Politica" che nel giro di breve tempo assume notevole prestigio. Vi collaborano Salvemini e Luigi Einaudi e molti degli intellettuali che non si appiattiscono di fronte alla crisi del paese. L'editoriale di presentazione della rivista sosteneva testualmente: "Se in tutti i paesi, presso tutti i popoli, l'accentramento ha dati risultati disastrosi, in nessuno certamente ne dette quanti in Italia. Se infatti c'è un paese al mondo che abbia una lunga e bella tradizione di libertà e di autonomie locali e ove ogni regione abbia avuto una vita propria, questo è appunto il nostro. La centralizzazione che ci fù coll'unità imposta... ha negato semplicemente l'Italia, demolendola senza ricostruire, paralizzando ogni attività, stroncando ogni iniziativa, imponendo la uniformità là dove era la varietà... Per ciò la necessità di un cambiamento radicale, quasi diremmo un capovolgimento nella idea di stato quale venne accettata e tradotta nel fatto fin qui. Solamente un nuovo e diverso ordinamento in cui le autonomie, le libertà, le stesse indipendenze economiche sieno ben garantite e l'intervento statale non riesca a turbare e a deviare le tendenze, le attività e le iniziative spontanee può liberare la nazione dagli interessi parassitari che l'anemizzano... Una soluzione come quella che abbiamo prospettato non può aversi che su basi regionali e federali in uno stato ridotto al minimo indispensabile degli organi, delle funzioni e delle attribuzioni... Che la parola decentramento incontri oggi particolare favore, che da varie parti si manifestino tendenze ed opinioni verso le autonomie non è evidentemente per caso ma è il risultato diretto delle condizioni di disagio e d'insopportabilità in cui tutta la vita della Nazione si svolge grazie all'accentramento e all'intervenzionismo statale. A tali condizioni non si può porre sollievo né tanto meno rimedio aumentando il numero delle competenze o suddividendo fra tanti poteri locali le funzioni che lo stato si è assegnato... Il decentramento non può così trovare altra soluzione che nel passaggio dall'attuale stato, accentrato e di molte e complesse funzioni, ad uno Stato di poche ed essenziali funzioni al centro. Il nostro decentramento, l'unico possibile... s'inquadra in un sistema, non può costituire una riforma, un ritocco all'attuale ordinamento." Zuccarini non riuscì a portare la maggioranza dei repubblicani sulle sue posizioni ma certo catalizzò al loro interno, in modo duraturo, una tendenza sicuramente federalista e tendenzialmente libertaria. Queste tendenze comunque si esprimevano troppo tardi per avere validi interlocutori nelle forze d'urto del momento, le componenti storiche del movimento operaio. Nel 1921 quando esce "Critica Politica" il movimento anarchico era semidistrutto e quello socialista si andava disgregando. E del resto anche nel momento della loro maggiore espansione(1 91 9-1 920), presi come erano dalla linea esclusivamente classista, ben poco spazio avevano dato all'impostazione federalista. Un fatto logico per i socialisti, meno scontato per gli anarchici. Vili- La sinistra di classe marxista e quella rivoluzionaria anarchica dopo la Rivoluzione in Russia. Nel periodo giolittiano le sezioni socialiste erano state poco più di circoli elettorali, le Leghe, le sezioni sindacali avevano avuto come interlocutori il governo ed i padroni. Dal canto loro i gruppi anarchici avevano dovuto rispondere,"settimana rossa" a parte, solo a se stessi mentre gli anarcosindacalisti più che altro avevano tenuto d'occhio i sindacati socialisti. Ora improvvisamente tutti quegli organismi si erano trovati pressati da una massa imponente che, costretta a fare la guerra,nel corso di questa, si è a modo suo politicizzata. Questa massa vuole fare come in Russia e questo chiede ai gruppi che da sempre avevano lottato nel movimento operaio. Accanto e conseguente al cataclisma della guerra mondiale, infatti, c'era stato quello della prima rivoluzione proletaria dopo la Comune, e, soprattutto, la prima rivoluzione vittoriosa. Al di là dei fatti, quella rivoluzione creò un mito che è durato fino ai nostri giorni. Figuriamoci a quell'epoca, quando gli stessi governi occidentali, impedendo ogni notizia e combattendola ferocemente, contribuirono non poco a che ognuno se la sognasse a suo modo. Il mito della rivoluzione russa e dell'efficacia della sua "dittatura del proletariato" fu galvanizzante per le masse proletarie italiane e paralizzante per le sue élite, impossibilitate a trasmettere articolazioni proprie. Il PSI, ancora ufficialmente unito, è in realtà diviso come mai tra riformisti e "rivoluzionari". La minoranza riformista non chiederebbe di meglio che partecipare finalmente ad un governo liberalprogressista. La sua forza sta nella burocrazia sindacale che pensa in termini di compartecipazione. L'unico nella loro area a proporre qualche cosa di innovativo, come accennato, è Modigliani, ma anch'egli in un ambito sostanzialmente parlamentaristico. Questa corrente è comunque quasi ridotta al silenzio dalla grande maggioranza che si dice rivoluzionaria ed aderente alla nuova Internazionale fondata a Mosca da lenin. In realtà quest'ultima, la maggioranza, di rivoluzione ne sa ancora meno dei riformisti dai quali la divide la sola differenza,anche se non piccola,che al governo vuole andare anch'essa nello stesso stesso quadro istituzionale e per via elettorale, ma non per fare un governo liberalprogressista, ma per instaurare da padroni la "dittatura del proletariato"! In altri termini, seppure con ottiche diverse, ambedue vivono all'interno del sistema così come l'hanno conosciuto da sempre. Unici in campo socialista a porsi il problema dell'autonomismo come fattore della rivoluzione furono i futuri comunisti del gruppo di "Ordine Nuovo", che traevano dal mito dei soviet e dal fermento operaio della Torino industriale, gli stimoli per elaborare la teoria dell'autorganizzazione proletaria, fondata sui "Consigli". Una teoria però che, per quanto riguarda l'autorganizzazione, o l'autodemocrazia come la chiamò allora Berneri, rimase prigioniera del contraddittorio rapporto con il concetto del "Partito guida" leninista. In campo anarchico la situazione è per molti versi ben diversa. Gli anarchici, a differenza dei socialisti e dei comunisti in erba, si danno subito ed organizzano una vera e propria strategia insurrezionale: "un vero programma di assalto alla società borghese", come osservò preoccupata la Kuliscioff. Già nell'aprile del 1919 si danno un organizzazione nazionale: l'Unione Anarchica Italiana (UAI), fondata sui principi autonomisti e federativi della I Internazionale, ma anch'essi devono affrontare, al pari dei socialisti, gli effetti della rivoluzione russa nelle aspettative del proletariato e nelle loro stesse fila. Nel luglio del 1919 Malatesta scrive da Londra,dove è ancora esiliato, parole molto prudenti a Luigi Fabbri che era estremamente preoccupato per la infatuazione generale in Italia, movimento anarchico compreso, per la dittatura del proletariato: "Carissimo Fabbri, Sulla questione che tanto ti preoccupa, quella della "dittatura del proletariato", mi pare che siamo fondamentalmente d'accordo. A me sembra che su questa questione l'opinione degli anarchici non potrebbe essere dubbia... Ma quando è scoppiata la rivoluzione bolscevica parecchi nostri amici hanno confuso ciò che era rivoluzione contro il governo preesistente, e ciò che era nuovo governo che veniva a sovrapporsi alla rivoluzione per frenarla e dirigerla ai fini particolari di un partito - e quasi si sono dichiarati bolscevichi essi stessi... Il "proletariato" naturalmente c'entra come c'entra il "popolo" nei regimi democratici, cioè semplicemente per nascondere l'essenza reale della cosa. In realtà si tratta della dittatura di un partito, o piuttosto dei capi di un partito; ed è dittatura vera e propria, coi suoi decreti, colle sue sanzioni penali, coi suoi agenti esecutivi, e soprattutto colla sua forza armata, che serve oggi a difendere la rivoluzione dai suoi nemici esterni, ma che servirà domani per imporre ai lavoratori la volontà dei dittatori, arrestare la rivoluzione, consolidare i nuovi interessi che si vanno costituendo e difendere contro la massa la nuova classe privilegiata... Queste sono le mie idee generali sulle cose di Russia. In quanto ai particolari le notizie che abbiamo sono ancora troppo varie e contraddittorie per poter arrischiare un giudizio. È meglio aspettare, tanto più che quello che noi diremmo non può aver nessuna influenza sullo svolgimento dei fatti in Russia, e potrebbe in Italia essere male interpretato e darci l'aria di far eco alle calunnie interessate della reazione. L'importante è quello che dobbiamo fare noi - ma siamo sempre li, io sto lontano ed impossibilitato a fare la parte mia.." Alla fine di quell'anno però Malatesta può finalmente raggiungere, in modo inaspettato e rocambolesco, l'Italia. Accolto nel paese come il Lenin italiano, appellativo al quale subito rinuncia, vi porta comunque, al pari di Lenin, tutta la sua carica di attivismo, il carisma e la consumata esperienza politica accumulata in cinquanta anni di esperienze rivoluzionarie. Per prima cosa ,al congresso di Bologna, riesce a non far appiattire l'UAI sulla organizzazione anarcosindacalista dell'USL Rimane il fatto che quest'ultima è al momento l'unica organizzazione concreta e capillare che hanno i libertari. E in realtà, durante il "biennio rosso", l'USI, ormai completamente in mano agli anarchici, si rivela la vera struttura operativa del movimento libertario. Sotto la guida di Armando Borghi agisce in modo audace e fin troppo generoso ma porta in sè le contraddizioni di una struttura di classe che si muove con obiettivi politici ma deve tenere conto della sua composizione sindacale ed infine che è tutt'altro che insensibile agli appelli della III Internazionale di Mosca. D'altra parte non c'è tempo per sottilizzare almeno in campo libertario su chi è più vicino o distante. Gli elementi di punta del movimento anarchico, in primo Malatesta - ma anche Fabbri e Gigi Damiani, che appena rispedito dal Brasile, diventa il geniale redattore del quotidiano "Umanità Nova" - sono gli unici nella sinistra italiana ad intuire che la controrivoluzione può concretizzarsi da un momento all'altro. Addirittura secondo Sforza fu l'unico politico italiano a prevedere il fascismo. Certo è che Malatesta spinge il movimento anarchico a trasformare ogni scintilla in una rivoluzione prima che la reazione abbia il tempo di organizzarsi. L'attività degli anarchici fu allora frenetica ma lasciò ben poco spazio alle rielaborazioni. Intendiamoci: queste non mancarono, anzi. Gigi Damiani ha il coraggio di proporre un alleanza con gli elementi federalisti del Partito Repubblicano, guidati da Zuccarini. Fabbri lascia ogni remora ed articola la prima critica da sinistra del concetto e della pratica della "dittatura del proletariato". E poi Malatesta che batte in continuazione nei comizi, negli scritti quotidiani, sulla necessità dell'autorganizzazione in tutti i campi, a cominciare da quello dei servizi. Non mancano le elaborazioni, manca peròil tempo perchè queste si sedimentino e abbiano il sopravvento su anni e anni di operaismo anarcosindacalista, sul quale ben attecchisce ora il mito bolscevico e di millenarismo kropotkiniano. Un esempio di quest'ultimo, ben diffuso nel movimento, è espresso dall'esponente milanese Molaschi, che attacca Damiani e le sue proposte di collegarsi a Zuccarini. Molaschi nega che esistano istanze federaliste e potenzialità libertarie nei repubblicani e si appella alla fedeltà al federalismo bakuniniano e al "buon anarchismo di cinquant'anni or sono che è sempre giovane, gagliardo, pieno di promesse per il vicino domani". Gli fa da rincalzo Renato Siglich, allora direttore de "Il Libertario" di La Spezia che, con grande irritazione di Malatesta, era solito terminare i comizi con la fatidica parola d'ordine: "La Rivoluzione sarà Anarchica o non sarà". Se questo è un atteggiamento largamente diffuso in unmovimento di élite e altamente politicizzato come quello anarchico figuriamoci nella massa dei lavoratori appena accostatasi alla lotta politica. Di questo si rende conto Malatesta che come strategia punta,dovunque sia possibile, ad una rivoluzione autogestionaria e quindi, immediatamente dopo, federativa, ma come tattica, adotta quella di spingere e coinvolgere i socialisti nella rivoluzione in nome dell'unità proletaria. In altri termini Malatesta , stretto tra alcuni che, loro malgrado, dietro un atteggiamento ideologicamente intransigente rimandano tutto al dopo di una rivoluzione taumatugica e taumaturgicamente avvenuta, e la massa che si muove nei termini più elementari di classe se non di populismo, sceglie di adottare una linea prevalentemente classista e di immettervi tutta una carica autogestionaria e federalistica. Ma così facendo, questa rimane ancora una volta interna al solo mondo dei lavoratori e non si fa appello e programma per altre forze in nome di un nuovo assetto " nazionale", e solo poi internazionale, come la situazione italiana allora avrebbe richiesto. L'unico momento in cui la questione venne concretamente affrontata in questi termini, fu nel gennaio del 1920 nelle trattative tra Malatesta, e Serrati, allora a capo del PSI, con gli emissari di D'Annunzio per una marcia rivoluzionaria che da Fiume puntasse su Roma. Quelle trattative vennero bloccate dall' "ottusità" socialista. C è da dire che il solco tra l'interventismo, sia pure democratico o rivoluzionario, e gli antinterventisti era allora veramente profondo, dopo che questi ultimi avevano subito il macello della guerra e conosciuta la fiducia nella rivincita rivoluzionaria di classe. Solo con il suo immenso carisma Malatesta avrebbe potuto farlo superare agli anarchici, ma Serrati, ammesso che il suo schematismo ideologico glie lo permettesse, non avrebbe potuto contare su un ugual prestigio fra i suoi. Del resto di fronte alla negativa di Serrati anche Malatesta preferì declinare le proposte dei fiumani. L'inconciliabilità di fondo,tra le impostazioni anarchiche e quelle socialiste, mascherata da una parte e dall' altra in nome dell'unità operaia venne però a galla nel modo più drammatico di lì all'autunno, con l'occupazione delle fabbriche nel triangolo industriale. Fu quello un movimento spontaneo,tutto operaio, sostanzialmente autogestionario e con potenzialità federaliste, o almeno così l'interpretarono gli anarchici. Così "Umanità Nova" di quei giorni: " Lavoratori! Voi vi siete impossessati delle fabbriche. Voi avete fatto con questo il primo passo importante verso l'espropriazione della borghesia e la messa a disposizione dei lavoratori dei mezzi di produzione. Il vostro atto può essere, DEVE ESSERE, il principio della trasformazione sociale. Il momento è propizio come non fu mai. Oggi è questione di tutto per tutto: per voi come per i padroni. Per far fallire il vostro movimento i padroni sono capaci di concedere tutto quello che domandate, poi, quando voi avrete rinunciato al possesso delle fabbriche e queste saranno presidiate dalla polizia e dalla truppa, allora GUAI A VOI!... Entrate in relazione tra fabbrica e fabbrica, e coi ferrovieri per il rifornimento delle materie prime, intendetevi colle Cooperative e col pubblico. Vendete e scambiate i vostri prodotti senza tener alcun conto di coloro che furono i padroni. Padroni non ve ne debbono essere più e non ve ne saranno se voi vorrete." E ancora: "Ora urge che i lavoratori delle altre categorie entrino in lotta. Qualunque ritardo potrebbe essere fatale. I metallurgici non possono sussistere indefinitivamente se non si fornisce loro almeno gli alimenti. E per poterlo fare bisogna pigliar possesso di tutte le fabbriche, di tutti i depositi di merci, specialmente alimentari, delle ferrovie, dei bastimenti, di tutta quanta la ricchezza sociale." Luigi Fabbri testimonia che Malatesta "sosteneva in pubblico e in privato... non potersi presentare mai più un occasione migliore per vincere quasi senza spargimento di sangue. Estendere le occupazioni delle fabbriche metallurgiche a tutte le altre industrie, alle terre. Dove non c'erano industrie, scendere in piazza con scioperi e sommosse locali che distogliessero le forze armate dello stato dai grandi centri. Dalle località più piccole, dove non vi fosse proprio nulla da fare, accorrere in quelle maggiori più vicine. Scesa in campo di gruppi d'azione di fiancheggiamento, armarsi nel più gran numero possibile ed intensificare la raccolta delle armi. E così via" Ed in verità l'intero movimento anarchico si mosse per potenziare e generalizzare il movimento delle occupazioni, ma ognuno a modo suo. Gli anarchici dell'UAI si dettero da fare, e come, per armarsi, lo si vedrà nella primavera successiva, e per appoggiare le occupazioni locali ma,a differenza delle esortazioni di Malatesta, tutto nell'ottica di aspettare la rivoluzione in casa propria. L'autonomismo venne vissuto come localismo. L'USI dal canto suo si lanciò subito all'attacco ma,risentendo della sua essenza sindacale,rimase impaniata nel problema di non rompere con le consorelle organizzazioni socialiste. Il 7 settembre a Sampierdarena 'USI convoca i metallurgici, i ferrovieri, i marittimi,gli alimentari, decisi a creare il fatto compiuto dell'occupazione generale, cominciando dal porto di Genova. Al Convegno interviene anche, fatto inaudito, il segretario generale dei metallurgici della CGdL, Colombino, che chiede ed ottiene una settimana di tempo per organizzare tutti assieme il via alla espropriazione generale. Ma Colombino ed i suoi compagni, coerentemente colla loro impostazione,sfruttano il tempo loro concesso , per trattare con successo una soluzione interna alla logica statale. Gli operai rimangono completamente disorientati, non hanno alcuna preparazione " culturale" per muoversi da sé e per gli altri. Seppure a malincuore e spesso con rabbia, lasciano le fabbriche, in cambio accettano una cogestione burocratica strappata dai vertici sindacali ai padroni tramite Giolitti. Gli anarchici scontano così gli anni di mancata azione e propaganda concretamente autonomista e autogestionaria al loro interno e nel movimento operaio. È l'inizio del crollo della spinta a sinistra e con essa quello dell'assetto dell'Italia postunitaria. Alla fine del 1920, la linea di Malatesta è fallita: gli anarchici non solo non sono riusciti a trascinare i socialisti alla rivoluzione ma sono da questi abbandonati alla repressione di Giolitti. Una repressione che scavalca lo stesso Giolitti ed apre la via alla controffensiva reazionaria guidata dal fascismo. E se i socialisti faranno finta di non vedere quando Giolitti colpirà gli anarchici, Giolitti farà finta di non vedere quando i fascisti colpiranno i socialisti. La reazione in Italia, con il fascismo, non si presentò con le caratteristiche "classiche" alla Crispi, tanto che sboccò nel primo regime totalitario del mondo occidentale. Ma anche quando tutte quelle implicazioni non erano e non potevano essere ancora chiare, il fascismo si presentò non solo come antiproletario ma come antiautonomista e anticomunalista. Non a caso i primi obiettivi dei suoi attacchi sono le espressioni organizzate delle autonomie dei lavoratori e dei cittadini: dalle Case del popolo alle Cooperative, alle Camere del lavoro, ai Comuni "rossi". Un impostazione che il fascismo porterà alle estreme conseguenze nel 1926,quando soppresse tutte le autonomie amministrative locali. IX- Mussolini al potere La vittoria di Mussolini sia sulle piazze che in parlamento, impose non solo alle sinistre ma agli stessi liberali, un ripensamento sul ruolo delle istituzioni e delle libertà civili in quanto tali, e su come storicamente erano andate configurandosi nel nostro paese. Un ripensamento che dette nuovo spessore alle tematiche autonomistiche e federalistiche. Il periodo che va dalla "marcia su Roma" (ottobre '22) alle "leggi eccezionali" (1926) vede le aree intellettuali non fascistizzate e soprattutto quelle giovani, prendere coscienza che l'Italia postunitaria si era cristallizzata attorno ad una democrazia esclusivamente formale e parlamentaristica. Nell'inadeguatezza di quel sistema per una reale vita non solo democratica ma liberale del paese venne individuata la causa profonda che al momento aveva il fascismo. Di qui la ricerca di nuovi modelli. Una ricerca che sbocca nella riscoperta di una libertà "reale",frutto del dialettico rapporto tra le autonomie individuali, sociali, economiche e politiche. In campo socialista Carlo Rosselli e Pietro Nenni danno origine alla rivista "Quarto Stato". Ambedue di origine mazziniana portano nel socialismo marxista italiano, la componente volontarista ed una critica alla stessa ideologia, considerata,nello stesso tempo sterilmente "intransigente" ed "economicistica", che nel migliore dei casi era solo arrivata ad ipotizzare una "democrazia dei lavoratori"di tipo formale. In campo liberale ad aprire il dibattito è Piero Gobetti con la sua rivista "Rivoluzione Liberale". La rivista, è ben lontana dalla rassicurante interpretazione di Croce, nel quale pure Gobetti riconosce il suo maestro di pensiero e di vita. Per Croce lo stato liberal/parlamentare rimane un organismo sano anche se al momento attaccato dalla malattia fascista portata dalla guerra. Di contro "Rivoluzione liberale" individua nel costruirsi stesso dello stato unitario e sabaudo il primo tradimento dello spirito liberale, quale garante delle autonomie non solo economiche ma politiche e sociali. La rivista esprime una tale carica di rinnovamento istituzionale che valuta positivo e da sviluppare il tema gramsciano dei consigli. In quel quadro complessivo, comunque interpretato, lo stato perdeva la caratteristica,che aveva avuto fino ad allora per larghi settori culturali e sociali, di unico e indispensabile garante della nazione e della libertà dei cittadini. Del resto il dibattito su una concreta riorganizzazione autonomistica del paese riemergeva con vigore nel movimento anarchico. Nascono allora due riviste di alto livello: "Pensiero e Volontà" diretto da Malatesta, e "Fede!", diretto da Damiani. La prima è di taglio teorico, con lo "sguardo rivolto al futuro" ma sostanzialmente legata alle esperienze di un anarchismo che aveva avuto come suo unico interlocutore lo stato liberale. La seconda è più agile e molto più scettica sui contenuti democratici delle esperienze liberali. Ambedue riaprirono il dibattito sulle concrete possibilità di un organizzazione della vita sociale che dall'autonomismo, implicito in tante esperienze ed esplicito nelle dichiarazioni di principio, tornasse a farsi federalismo libertario operante, in primo luogo nel modo di pensare politico degli anarchici. A porre il problema come centrale era soprattutto un esponente della nuova leva libertaria: Camillo Berneri. Questi era uscito allo scoperto, alla fine del 1922, con una critica impietosa dell'attacco di Molaschi a Damiani, un attacco che porta a simbolo di una diffusa mentalità immobilistica. "Quello che dice Molaschi è vero ma solo in parte. - scrive Berneri - Che la generalità dei repubblicani abbia seguito e segua tutt'ora Mazzini invece di Ferrari e di Cattaneo, è vero ma è anche vero che vi è un forte gruppo di repubblicani che continuano la tradizione federalista, arricchendola ed elaborandola ... I repubblicani federalisti hanno, bisogna riconoscerlo, fatto molto più di noi nel campo teorico. Noi siamo ancora al federalismo di Bakunin, che a Molaschi pare a quanto sembra, non plus ultra. E questo è un grave segno. Dimostra che non abbiamo fatto che pochi passi più in là dei maestri. ..[con il risultato che allo stato delle cose] siamo avveniristi e basta. Federalismo è una parola. È una formula senza contenuto positivo. Che cosa ci danno i maestri? Il presupposto del federalismo: La concezione antistatale, concezione politica e non impostazione tecnica, paura dell'accentramento e non progetti di decentramento... Il nemico è là: è lo Stato. Ma lo Stato non è solo un organismo politico, strumento di conservazione delle ineguaglianze sociali; è anche un organismo amministrativo. Come impalcatura amministrativa lo stato non si può abbattere. Si può cioè smontare e rimontare ma non negarlo poiché ciò arresterebbe il ritmo della vita della nazione che batte nelle arterie ferroviarie, nei capillari telefonici ecc.. Bisogna ritornare al federalismo. Non per adagiarsi sul divano della parola dei maestri ma per creare il federalismo rinnovato ed irrobustito dallo sforzo di tutti i buoni, di tutti i capaci... Bisogna cercare le soluzioni affrontando i problemi. Bisogna che ci formiamo un nuovo abito mentale". Non credo pura coincidenza che Carlo Molaschi, l'anno dopo, pubblicasse una serie di saggi per "Pensiero e Volontà" di notevole spessore per approfondire ed anche correggere il suo pensiero in materia di "Federalismo e libertà", come storicamente si era configurato in Italia. Questa stagione di fermento intellettuale venne stroncata dalla definitiva vittoria di Mussolini sulle opposizioni dopo l'assassinio di Matteotti, ma spiega molto di quella vittoria. Le opposizioni istituzionali, socialisti compresi, in quella delicatissima crisi avevano scelto la formula delHAventino", cioè di seguire l'appello di Turati, immediatamente fatto proprio dal liberale Amendola e dalla sinistra dei popolari, per la difesa ad oltranza di quella democrazia formale e parlamentaristica nella quale non solo non credevano gli strati proletari ma ormai nemmeno gli elementi più dinamici del mondo intellettuale di qualsiasi estrazione fosse. Quella democrazia rimase nuda ed impotente di fronte a Mussolini che l'aveva sempre disprezzata, e che ora poteva distruggere, non solo perchè appoggiato da Monarchia e Vaticano, ma perché era quella democrazia stessa già morta nella coscienza dei più e sopratutto in quella del popolo. Un popolo che dal 1914 si era battuto per la rivoluzione antimonarchica, si era poi opposto alla guerra. La " grande" guerra che era stato costretto suo malgrado a fare ma che aveva vinto. All'indomani aveva cercato la rivoluzione proletaria. Era stato battuto ma aveva allora affrontato la guerra civile. Dopo dieci anni di sangue quel popolo non era più disponibile a battersi per un semplice ritorno allo statuto. Fu un fatto tragico che portò alla scomparsa anche delle ultime libertà, sia pure formali, ma fu un dato di fatto che veniva da lontano. X- Il fuoriuscitismo Nel corso del 1926, i vertici dei partiti, ormai messi fuori legge nella penisola, e gli esponenti antifascisti di maggior spicco, riparano in Francia, come ai tempi delle insurrezioni antiaustriache o come quelli più recenti della reazione umbertina di fine secolo. Vi raggiungono le migliaia di militanti della sinistra che erano stati costretti all'esilio ben prima di loro. Non è una fuga, è la necessità di trovare spazio e tempo per riorganizzare le proprie fila. In Francia si ricostituiscono i due partiti socialisti, quello repubblicano ed una segreteria della CGdl_,ad opera di Bruno Buozzi. Trovano un ambiente già preparato dalla Lega dei Diritti dell'Uomo (LIDU). Una organizzazione di difesa creata sul modella della preesistente lega francese e basata sull'asse massonico profondamente radicato nella cultura di tutta la sinistra francese. Un asse che, nell'ambito italiano collegava elementi del socialismo di ascendenza radicale, alla Luigi Campolonghi, rifugiato in Francia dai tempi di Crispi,fino ad esponenti del sindacalismo rivoluzionario come Alceste De Ambris, che in Francia avevano riparato dopo Fiume. Alla fine del '27 questi raggruppamenti si coordinano nella "Concentrazione d'Azione Antifascista" con un proprio organo settimanale: "La Libertà",diretto da Treves. Ne rimane fuori il PCdl, che si appiattisce sulla linea del Comintern di lotta al "socialfascismo" e che continua a sostenere di avere in Italia, all'"interno", la propria direzione clandestina. Ne rimane fuori il movimento anarchico, malgrado gli inviti dei socialisti massimalisti. Gli anarchici per forza di cose, avevano riorganizzato i propri gruppi in Francia ben prima della Concentrazione. Erano impegnati, come vedremo, in un ampio dibattito internazionale che sconsigliava più che mai alleanze precostituite. Manca il Partito Popolare e quello liberale che non si ricostituiscono all'estero, schiacciati dall'ormai manifesto sostegno della Corona e del Vaticano a Mussolini e "traditi" dalla fragilità della loro impostazione democratica. Il fuoriuscitismo dimostrò tenacia e fede, ma certo, dal punto di vista del dibattito "autonomistico", così promettente negli anni '22-26, l'esilio fa da spartiacque. Piero Gobetti è morto. Il PCdl seppellisce nello stalinismo l'interpretazione consiliarista. In campo socialista, il leader emergente, Nenni, tralascia di approfondire gli spunti di "Quarto Stato" e mette tutte le sue energie nella riunificazione dei due tronconi, massimalista e riformista. Il suo obiettivo è quello pragmatico di ricreare un Partito Socialista Italiano che abbia voce in capitolo nella nuova Internazionale Socialista e presso la Socialdemocrazia tedesca. Lo stesso Partito Repubblicano, con Zuccarini bloccato in Italia, viene ricostituito in Francia più che altro dalle componenti che non condividevano la linea federalista. Sono le correnti di Bergamo e quelle intransigenti di Pacciardi e Reale. In questo ambiente il trauma del crollo delle ultime garanzie liberali e della presa del fascismo,finisce per paralizzare un po' tutti su quanto era stato perso piuttosto che su quanto era da ricostruire da capo. Bisognerà aspettare la fine del 1932 perchè la Concentrazione si azzardi a parlare di una " Repubblica dei lavoratori" e questo quando, come vedremo, al suo interno e al suo esterno agisce il nuovo movimento di "Giustizia e Libertà ". XI- Il Movimento anarchico in esilio contro il fascismo. Pure per il movimento anarchico e non solo italiano fu un momento molto delicato. Tra l'altro fu messo in discussione per la prima volta il principio del federalismo anche come metodo di organizzarsi interna. La anelata rivoluzione internazionale, alla quale gli anarchici avevano partecipato con un ruolo di primo piano, c'era stata ovunque ma soltanto in Russia era stata vittoriosa e lì aveva preso la forma del socialismo autoritario in versione bolscevica. Non solo: il disintegrarsi del socialismo in filoliberale e filobolscevico aveva tolto ogni possibilità di alleanze agli anarchici. Questi erano stati ormai da anni minoranze, ma minoranze agenti in un ambiente che per amore o per forza simpatizzava con loro. Allora invece per la prima volta si trovavano attaccati non solo da destra, dalla borghesia e dal socialismo riformista ma da sinistra, dai nuovi "rivoluzionari di professione" del Komintern. A quel punto la prima esigenza comune fu di riorganizzarsi per proprio conto sia a livello internazionale che interno. I primi a muoversi in tal senso furono non a caso gli anarcosindacalisti. Nel dicembre del 1922 a Berlino si riunirono a congresso e decisero di rompere definitivamente con l'Internazionale del Lavoro proposta da Mosca e di crearne una propria che riprendeva la gloriosa sigla di AIT. Una decisione veramente coraggiosa data l'influenza del mito russo sulle masse operaie e data la situazione di riflusso generale del movimento rivoluzionario. È probabile che in Spagna non ci sarebbe stata non solo la rivoluzione ma nemmeno la repubblica se la CNT non avesse scelto per l'AIT, così come va dato atto al coraggio dell'USI allora alle prese con il fascismo dilagante come alla FAUD tedesca che potè mantenere una sua identità senza farsi coinvolgere nella suicida politica del socialfascismo portata avanti dai comunisti. Per gli anarchici,da cinquant'anni legati in strutture organizzative molto elastiche quando non labili, il problema si presentò molto più complesso. Da una parte si sostenne che di fronte alla reazione la sconfitta anarchica e la vittoria bolscevica erano dipese dalla mancanza di una vera e propria organizzazione paragonabile a quella comunista. Questa mancanza di organizzazione era stata causata in sostanza dal tollerare nel movimento anarchico elementi non collegati alla lotta di classe e quindi alle sue tradizioni organizzative. Di qui la necessità di una solida "organizzazione di tendenza". Da una altra parte la vera causa del fallimento venne individuata nella incapacità propositiva e costruttiva del movimento nei momenti di crisi rivoluzionaria. Le conseguenze che ne traeva questa linea erano che necessitava si una organizzazione ma non di tendenza bensì di" sintesi" che permettesse il più ampio dibattito sulle soluzioni teoriche e pratiche che gli anarchici avrebbero potuto riproporre al momento del dunque. A mettere in questi termini il problema era stato proprio Malatesta al convegno tenuto a Saint Imier nel 1922 per ricordare il cinquantenario della I Internazionale. Il vecchio Malatesta, unico sopravvissuto tra i partecipanti di quello storico congresso, prese tutti di contropiede esponendo non motivi celebrativi ma politici. Era d'accordo, disse, con l'opinione generale che la colpa maggiore della mancata rivoluzione in Italia ricadeva sui socialisti di tutte le gradazioni, ma domandava anche cosa di costruttivo avrebbero fatto gli anarchici se la rivoluzione ci fosse stata e soprattutto chiese:"Cosa faremo noi nella rivoluzione che scoppierà domani?... La vita sociale non ammette interruzioni e la gente vuol vivere il giorno della rivoluzione il giorno dopo e sempre... Se i contadini ad esempio si rifiutano di fornire i generi che sono nelle loro mani senza ricavarne denaro... che cosa si fa? Obligarli? Allora addio Anarchia ma addio ad ogni rivolgimento per il meglio. La Russia insegni... Se queste sono questioni nuove, non è da anarchici spaventarsi tanto del nuovo". In verità non furono pochi a spaventarsi del nuovo a cominciare da Andre Colomer, leader emergente dell'anarchismo francese che per poco non dette al Malatesta di vecchio arteriosclerotico. Il fatto era che Colomer rappresentava la nuova generazione dell'anarchismo francese spaventata e umiliata dall'avanzata del prestigio bolscevico nel mondo operaio. Ma sulla linea,diciamo per comodo "malatestiana", si pose tra i primi proprio un francese, il vecchio Sebastian Faure che con l'edizione della "Enciclopedia Anarchica" mette in moto un grande lavoro di verifica e di sistemazione del pensiero anarchico. In questa sua impresa si appoggia alla nascente Opera Internazionale delle Edizioni Anarchiche. La fondazione di quest'ultima nel 1924 e della sua rivista trilingue;francese, spagnolo ed italiano,fu un avvenimento culturale e politico di primo piano per l'anarchismo internazionale. I finanziamenti per una attività così impegnativa li avevano portati dalla Spagna tre elementi che saranno presto leggendari: Buonaventura Durruti, Francisco Ascaso, e Gregorio Jover. Li avevano "prelevati" dal Bando de Gijon. All'organizzazione culturale e tecnica avevano pensato gli italiani Virgilio Gozzoli e Ugo Fedeli, il francese Severino Ferrandel ed il russo Volin. II problema di una organizzazione internazionale degli anarchici comunque rimaneva sul tappeto ed i sostenitori della soluzione di "tendenza" stavano prendendo sempre più in Francia e la Francia era allora il rifugio da tutta Europa dei militanti che si erano battuti nelle rivoluzioni dell'immediato dopoguerra. Tra questi numerosi gruppi russi che per ovvie ragioni erano i più sensibili alla cocente sconfitta di fronte ai bolscevichi ed erano i più amareggiati dalla inconcludenza di molti atteggiamenti tenuti allora dagli anarchici. Lo testimonia Ugo Fedeli che si era rifugiato in Russia subito dopo il periodo rivoluzionario ed aveva constatato che era impossibile rimanere là indivualisti ed antiorganizzatori,come era lui al momento di lasciare l'Italia, di fronte a quelle esperienze. Nel febbraio del 1927 è proprio il russo Pietro Archinov,appoggiato da Nestor MaknoJI leggendario capo degli anarchici ucraini, a prendere l'iniziativa per una serie di riunioni preparatorie alla convocazione di un congresso internazionale che fondasse l'Unione Generale degli Anarchici. Questo sulla base di una piattaforma organizzativa elaborata collegialmente dal gruppo "Dielo Truda" e già fatta circolare a lungo. Il loro sforzo era tutto in direzione di una organizzazione di tendenza portata alle estreme conseguenze. In essa la operatività sarebbe stata garantita dall'introduzione del principio della "responsabilità collettiva", cioè di gruppo e non individuale. In pratica la versione "libertaria" del centralismo democratico leninista. I corollari di questa impostazione erano evidenti e pesanti su tutta l'articolatissima loro proposta. Al punto che a noi qui interessa, quello 4 sul Federalismo, si legge: " L'anarchismo ha sempre negato l'organizzazione centralizzata,tanto nel campo della vita sociale delle masse quanto in quello della sua azione politica ... Sennonché molto spesso il principio federalista venne deformato fra gli anarchici: lo si intendeva sovente come il diritto di affermare soprattutto il proprio"io" senza tener conto dei doveri verso l'ORGANIZZAZIÓNE... Appunto per ciò, la forma federalista dell'organizzazione anarchica,pur riconoscendo a ciascun membro dell'ASSOCIAZIONE il diritto all'indipendenza, alla libera opinione, all'iniziativa e alle libertà individuali, LO INCARICA di determinati compiti organizzativi, esigendone la puntuale esecuzione, così come pretende l'esecuzione delle deliberazioni adottate in comune. Solo a questa condizione il principio federativo sarà vitale e l'ORGANIZZAZIONE ANARCHICA funzionerà regolarmente puntando verso l'obiettivo definito... Ciascuna organizzazione aderente alla Unione rappresenta una cellula vitale che fa parte dell'organismo comune. CIASCUNA CELLULA AVRÀIL SUO SEGRETARIO che seguirà ed ORIENTERÀ IDEOLOGICAMENTE l'attività politica e tecnica dell'ORGANIZZAZIONE. Un organismo speciale sarà creato in vista della coordinazione dell'attività di tutte le organizzazioni aderenti all'Unione, esso sarà il Comitato esecutivo dell'Unione stessa... L'Unione Generale degli Anarchici si appoggia in egual misura sulle classi fondamentali della società attuale: gli operai e i contadini. ESSA CURERÀ in egual misura l'opera di emancipazione di queste due classi. "[le maiuscole sono mie] In praticaci di là degli omaggi formali al valore centrale dell'individuo, era l'abbandono della tradizione organizzativa anarchica che non era solo forma ma sostanza. Si abbandonava quel nesso inscindibile tra fini e mezzi che è la difficoltà prima degli anarchici ma è anche la loro vera forza e anzi la loro ragion d'essere. In altri termini si proponeva una organizzazione di anarchici ma non un'organizzazione anarchica. Può sembrare strano ma l'atteggiamento totalitario prodotto dalla grande guerra,di cui il fascismo e il bolscevismo erano solo gli aspetti più evidenti, aveva conquistato a tal punto le mentalità che quella formula potè aver credito in parte dell'anarchismo internazionale. Alle riunioni preparatorie che si tennero a partire da febbraio del '27 parteciparono praticamente tutti i gruppi presenti a Parigi e fu subito evidente che quella proposta spaccava praticamente tutti i gruppi nazionali. Soprattutto trai francesi Colomer sostenne a fondo la posizione di Archinov, ma quando "vinse" all'interno dell'organizzazione francese Faure se ne andò con i suoi sbattendo la porta. Allo stesso modo si spaccò per primo il movimento russo e poi quello bulgaro e polacco, creando per anni un clima di velenose discordie finché Colomer e Arschinov non riuscendo a creare la loro Grande Organizzazione passarono a quella stalinista. Una scelta corretta visto che stalinisti erano sempre stati. In quel 1927 a reggere meglio, a parte gli spagnoli che erano immersi nella organizzazione anarcosindacalista, erano stati gli italiani. Tra questi solo Giuseppe Bifolchi ed il suo gruppo di "Bandiera Nera" sostenne la piattaforma. Al fondo Bifolchi rimase sempre quel buon militare che era stato, come dimostrò guidando i suoi compagni sul fronte di Spagna. Gli altri guidati da Fabbri, Fedeli e Berneri già dopo le prime due riunioni preliminari avvertirono il gruppo promotore di "Dielo Truda" che pur apprezzando il suo sforzo per porre sul tappeto problemi reali, questi non erano risolvibili con la scorciatoia della "responsabilità collettiva" e che per gli italiani,almeno per il momento, rimaneva più aderente alle esigenze del movimento lo schema altamente federativo dell'UAI. La posizione ebbe I' appoggio incondizionato di Malatesta che, relegato a Roma, appena riuscì ad essere informato del progetto lo demolì da cima a fondo. In Francia sarebbe stato Berneri a mettersi sulla via di una piena rivalutazione del federalismo non solo come modo di organizzarsi interno ma come proposta esterna di lottare per il comunalismo. Anche Berneri aveva scelto la Francia. All'inizio come base di appoggio ai suoi progetti cospirativi. Ma pur non rinunciando a quelli dovette adattarsi, come tutti, alla prospettiva di un ritorno in Italia in tempi lunghi. Accanto alla guerra guerreggiata a Mussolini, Berneri aveva presto ripreso a sviluppare le idee fondamentali su cui sperava di riorganizzare il movimento anarchico italiano. Nel 1926, appena arrivato a Parigi, si era appuntato poche righe ma che saranno in sostanza il suo programma: "Il problema della nostra tattica rivoluzionaria e postrivoluzionaria è mal basato e peggio sviluppato. Socialmente siamo imprigionati nel dualismo proletariato-borghesia, mentre il proletariato tipico è minoranza, è fiacco e disorientato, e vi sono vari ceti intermedi, ben più importanti e combattivi. Non ne abbiamo tenuto conto ed abbiamo avuto il fascismo. Se non ne terremo conto avremo altri fascismi. Il calcolo di ogni strategia è un calcolo di forze. È triste che molti dei nostri continuino a vedere soltanto il popolo insorgere all'attacco della cassaforte, dell'officina, del campo. Mentre quell'espropriazione non sarà che una piccola parte della rivoluzione italiana. A meno che non vogliano che i rivoluzionari ed i lavoratori ne buschino di nuove ed ancor più sode. Di paradisi comunisti se ne parlerà fra qualche secolo. Ora è roba da far ridere e piangere insieme. L'anarchismo non ha, al di fuori di quello sindacale, che un terreno sul quale battersi proficuamente nella rivoluzione italiana: il comunalismo. Terreno: politico Funzione:liberaldemocratica Scopo: la libertà dei singoli e la solidità degli enti amministrativi locali Mezzo: l'agitazione su basi realistiche di programmi minimi Il nostro comunalismo è autonomista e federalista. Ritornando a Proudhon, a Bakunin, a Pisacane, come fonti ma aggiornando il loro pensiero, al lume delle enormi esperienze di questi anni di delusioni e sconfitte, potremmo adattarlo alle situazioni sociali e politiche di domani, quali possiamo prevederle possibili, se sapremo dare alla rivoluzione italiana un indirizzo autonomista sul terreno sindacale e su quello comunale... La politica è calcolo e creazione di forze realizzanti un approssimarsi della realtà al sistema ideale, mediante formule di agitazione, di polarizzazione, e di sistemazione, atte ad essere agitanti, polarizzanti e sistematizzanti in un dato momento sociale e politico. Un anarchismo attualista consapevole delle proprie forze di combattività e di costruzione, consapevole delle forze avverse, romantico col cuore e realista col cervello, pieno di entusiasmo e capace di temporeggiare, generoso e abile nel condizionare il proprio appoggio, capace insomma di un'economia delle proprie forze, ecco il mio sogno e spero di non essere solo" Per i primi anni invece Berneri si sentì isolato, anche lui in fondo voleva tutto e subito. Alla fine del 1929 così descriveva in una lettera a Libero Battistelli, allora in Brasile, la sua solitudine nel movimento e le sue diversità da quello: "I dissensi vertono su questi punti: la generalità degli anarchici è atea, io sono agnostico. è comunista e io sono liberalista (cioè sono per la libera concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e tra lavoro e commercio individuali) è antiautoritaria in modo individualista ed io sono semplicemente autonomista federalista ( Cattaneo, completato da Salvemini e dal Soviettismo)... Quello che è certo è che sono un anarchico sui generis, tollerato dai compagni per la mia attività, ma seguito e capito da pochissimi." Anche a Berneri accadeva nei momenti di depressione, di far torto a se stesso e ai suoi compagni, cosa che aveva irritato più volte lo stesso Malatesta. In realtà Berneri, nel giro di pochi anni, potè portare alle sue idee una gran parte del movimento libertario fuoriuscito. Questo non certo per la sua"attività",che costò non poco ai suoi compagni in termini di sostegno politico, economico e di guai con la polizia francese. Lo ottenne grazie ad un comportamento più che corretto di fronte ai problemi che aveva creato al movimento, ma soprattutto perchè l'analisi sistematica delle delle idee forza e dei metodi dell'anarchismo come degli avversari di questo, che elaborò instancabilmente, trovarono militanti disposti a discuterle più di quanto credesse. Nei primi anni trenta poteva toccare obiettivi fino all'ora tabù come POperaiolatria" del 1934, dove sosteneva che il fulcro della resistenza al fascismo erano state non le fabbriche ma le zone dove era rimasta la tradizione tra 'urbano ed il contadino della gelosa custodia delle proprie autonomie. Due anni prima, in una serie di articoli pubblicati nel maggior organo dell'anarchismo all'estero "L'Adunata dei Refrattari" aveva sostenuto ancora una volta che i soviet erano strumenti di autodemocrazia da non sottovalutare, al di la della distorsione che i bolscevichi avevano operato su di essi. Secondo Berneri, il soviettismo rimaneva un " sistema che può permettere la ripresa della vita economica, compromessa dal caos insurrezionale, e può servire di base alla formazione di un nuovo ordine sociale, costituendo inoltre una proficua palestra di autoamministrazione preparante il popolo a sistemi di maggiore autonomia." Qui ritornano i problemi essenziali che Berneri aveva mutuato dall' ultimo Malatesta: 1) come garantire la vita quotidiana in una situazione rivoluzionaria senza ricorrere all'autorità 2) che ruolo possono avere gli anarchici in quel delicatissiomo periodo . Secondo Berneri, ammesso che si ricrei una situazione simile " è compito degli anarchici in seno al soviettismo di cercare di conservare in esso il suo carattere spontaneo, autonomo, extrastatale, di cercare che esso sia un sistema essenzialmente amministrativo e non diventi un organismo politico destinato in tal caso a partorire uno stato accentrato". Implicita, a distanza di sei anni, la critica alla piattaforma di Archinov e agli anarchici russi che avevano permesso il fagocitare dei soviet da parte dei bolscevichi perchè essi stessi avevano utilizzato i soviet come organismi politici e non di autoamministrazione. Durissima la presa di posizione delPAdunata dei Refrattari";i soviet non avevano mai avuto possibilità di essere strumenti di autogestione, al di là della buona volontà o meno degli anarchici in essi presenti. Del resto erano ormai solo strumenti governativi e questo valeva più di qualsiasi ipotesi di ruolo libertario che avrebbero potuto svolgere nell'Italia della rivoluzione antifascista. A quell'epoca il peso dell'"Adunata" era veramente notevole nell'anarchismo internazionale, eppure la redazione della rivista preferì troncare quel dibattito che stava diventando una pericolosa polemica. Anche Berneri era ormai un esponente da non sottovalutare non solo tra gli italiani ma in campo internazionale. XII- "Giustizia e Libertà" dall'antifascismo all'autonomismo antistatale. In quei tre anni molte cose erano passate anche negli altri campi dell'antifascismo. Nell'estate del 1929, Salvemini, assieme al "radicai" Alberto Cianca, al liberale Alberto Tarchiani e al repubblicano Raffaele Rossetti, organizzano la fuga dall'isola di Lipari di Carlo Rosselli, che vi si trovava confinato per aver portato clandestinamente in Francia Filippo Turati. Con lui vengono fatti evadere Emilio Lussu, leader del Partito Sardo d'Azione e Fausto Nitti, altro noto esponente liberale ed imparentato con l'ex presidente del Consiglio Saverio Nitti. Il gruppo, una volta raggiunta Parigi, con una rocambolesca fuga via mare che deliziò la stampa dell'epoca, vi fondava il movimento di "Giustizia e libertà". Obbiettivo immediato, destabilizzare il regime fascista fino a farlo crollare, contando soprattutto sulla rete di antifascisti organizzata fin dal '24 in Italia. Su questo obbiettivo proponeva a tutte le forze in campo di abbandonare pregiudiziali ideologiche e comportamenti di parte. In pratica portava all'estero le esigenze di chi, all'interno, non aveva spazio per distinguere i propri alleati di fronte a quel "gas asfissiante come Fabbri definiva il fascismo che pervadeva tutta la vita civile ed individuale, cercando di fare di ogni uomo una scimmia". GL, grazie all'audacia delle sue imprese e alla concretezza dei legami che aveva con T'interno" ebbe una grande risonanza. Nel primo anno l'attenzione di Rosselli per trovare alleati, si rivolse quasi naturalmente verso il campo libertario, al quale lo accumunava, oltre la personale conoscenza con Berneri, la fiducia nell'azione diretta, anche individuale. E quello per Rosselli era tempo di azioni. La disastrosa fine di un progetto di attentato alla Società delle Nazioni a Ginevra, elaborato da Berneri ma con l'appoggio attivo di GL, e le pressioni dei gruppi interni che sconsigliavano ulteriori spettacolari azioni di fatto, spinsero poi Rosselli e GL ad abbandonare i libertari per trovare un alleanza con il PSI, ormai riunificato dal "vecchio" compagno Nenni, ed infine ad entrare nella Concentrazione. Quella collaborazione si dimostrò fin dall'inizio non facile. Se Nenni aveva evitato di approfondire le tematiche abbozzate in "Quarto Stato", per Rosselli queste rimanevano ben operanti. Quando GL entra nella Concentrazione, Rosselli pubblica il saggio "Socialismo liberale" dove ribadisce il valore del volontarismo ed il rifiuto della democrazia formale e dell'economicismo del movimento operaio, o meglio socialista, prefascista. Fattori questi che, malgrado gli aggiornamenti, erano rimasti alla base del modo di pensare politico della Concentrazione. Lo scontro tra GL e la Concentrazione sarebbe stato prima o poi inevitabile e comincia a delinearsi seriamente quando la situazione europea prende a deteriorarsi rapidamente. La crisi economica della fine del 1929 stava scuotendo dalle fondamenta le economie ed i sistemi occidentali. Inoltre, mentre in Germania già nel '32 era evidente la crisi della socialdemocrazia tedesca, fino ad allora faro e puntello delle impostazioni democratiche di sinistra, lo sfascio economico, non sembrava intaccare il regime in Italia, Viceversa nel 1931 nella "arretrata" Spagna, dove era crollata la monarchia assieme al regime parafascista di Primo de Rivera, la Repubblica, percorsa da fermenti autonomisti, sembrava avviarsi a profondi rinnovamenti sociali. Il peso di quegli avvenimenti su GL si può avvertire appieno in quanto scrive Rosselli nel settembre del '32: La rivoluzione sonnecchiante in Spagna ha fatto un decisivo passo innanzi, spezzando le sottili combinazioni dei politicanti: l'iniziativa è trasferita alle forze popolari... La rivoluzione si fa più virile: dopo la lunga parentesi puramente politica, pare si disponga ad operare a fondo sul terreno sociale. La rapida espropriazione degli aristocratici responsabili della sedizione appare come la premessa di una grande riforma agraria... Il problema che oggi la rivoluzione spagnola deve affrontare è quello che ad un certo punto del loro sviluppo si pone a tutte le rivoluzioni: creare la massa dei difensori della rivoluzione, dei conservatori dell'ordine nuovo, di coloro cioè che avendo ricevuto dalla rivoluzione il pane e la dignità di vivere sono pronti per essa a battersi e morire. Il che tradotto nei termini di immediata riforma politica significa in Spagna, terra ai contadini ed armi ad una milizia del popolo. La situazione tedesca è la conferma, a contraris,del precedente giudizio sui fatti di Spagna. Là una rivoluzione che, sia pure con sviluppi assai lenti, avanza verso i suoi obbiettivi essenziali; qui una rivoluzione fallita. Fallita nel 1918 non nel 1932. Nel 1918, quando il terrore provocato dall'estremismo e il dottrinarismo in materia agraria indussero la socialdemocrazia maggioritaria a rinunciare ad ogni trasformazione sostanziale per fermarsi a Weimar, sul vuoto di una democrazia formale... Sommersi nella massa delle notizie contraddittorie, presi dal corpo a corpo antifascista, riesce sempre più difficile per noi antifascisti pervenire ad un panorama d'insieme. Dove va l'Europa, dove va il mondo? Mezzo continente europeo sottoposto ad una esperienza comunista dittatoriale, il centro ed il sud Europa preda delle reazioni fasciste e militariste, l'Asia in ebollizione nazionalista, la crisi economica più dura della storia che colpisce l'America e l'intero mondo civile, l'Inghilterra ai conservatori protezionisti. Il più grave si è che dovunque si volga lo sguardo si trova che la classe operaia e i movimenti progressisti versano in istato di impotenza e di letargo. ..Viene fatto domandarsi se la scientifica organizzazione delle masse, coi suoi quadri pesanti e gerarchici, non abbia distrutto ogni spontaneità d'impulsi, ogni vivacità d'iniziativa,ponendole alla mercé di snelli nuclei combattivi della reazione... Perché le parti tornino ad invertirsi non può ormai più bastare un colpo di fortuna: occorrerà una riorganizzazione profonda delle forze di sinistra (politiche,sindacali, culturali) preceduta e accompagnata da una revisione senza pietà e senza opportunismi delle nostre dottrine. L'ORA DI TUTTE LE ERESIE È SUONATA." In questa ottica GL si dotava anche di una rivista teorica e di dibattito: "Quaderni di Giustizia e Libertà". Il primo numero dei "Quaderni" appare nel gennaio del 1932 e presenta un vero e proprio " Programma" rivoluzionario. Enunciava una serie di obbiettivi tali da smantellare gli equilibri sociali, politici ed istituzionali, che avevano permesso la distruzione delle libertà ed il consolidarsi del fascismo, ed assieme tali da sostituire quegli equilibri con altri del tutto nuovi nei quali il concetto chiave era quello della autonomia. "L'organizzazione del nuovo Stato - vi si leggeva - dovrà basarsi sulle più ampie autonomie. Le funzioni del governo centrale dovranno limitarsi alle sole materie che interessano la vita nazionale. Il principio dell'autonomia è uno dei principi direttivi del movimento rivoluzionario "Giustizia e Libertà ". Il Programma venne immediatamente attaccato dai comunisti e dai socialisti, come piccolo borghese, e dai repubblicani come avventurista ed anarcoide. Nel numero di settembre dei "Quaderni", Leone Ginsburg dall'interno rispondeva alle critiche precisando ampiamente come, dal suo punto di vista ( ben vicino a quello che stava elaborando Rosselli) era inteso "Il Concetto di Autonomia nel programma di GL": "Parlare di autonomia nel puro senso della parola è affermare il valore morale della politica: intendere che la lotta politica deve essere in Italia lo strumento di un rinnovamento di civiltà. La politica non è sempre attività così essenziale (almeno la politica di governo). Essa può realmente "delegarsi" quando, per il coesistere di istituzioni autonome, non rappresenti più che una tecnica, una gestione di affari. Ma queste istituzioni sono il risultato di una lotta che ha trovato un suo equilibrio e hanno possibilità di trasformazione interna. Certi problemi perdono (come nella morale individuale) la loro importanza e diventano pura amministrazione quando in realtà sono risolti; se la libertà è diventata un patrimonio comune e abituale, questa o quella posizione governativa può realmente essere indifferente. Ci si libera dalla politica attraverso la politica. Da noi invece il disinteresse è incapacità di autogoverno. Perciò ogni politica è oggi affermazione di autonomia... Opponendoci al fascismo e affermando concretamente la "religione della libertà" nessuno pensa di fare o preparare una azione di governo, ma ciascuno è consapevole di appartenere e di contribuire a formare quello che conta assai più di un governo; un "costume". ...Noi crediamo che vi sia un modo più concreto di dar vita alle tradizionali libertà che non sia il porle soltanto come richieste: con l'organizzazione clandestina affermiamo la libertà di associazione, con i Quaderni,gli opuscoli, i manifesti, la libertà di stampa, col Programma, la libertà di pensiero. Il principio di autonomia non esclude nessuna posizione che sia posizione di libertà;ma richiede una massima specificazione. Accordo di forze i cui scopi diversi cooperano a un fine, tanto più comune più quelli sono particolari. Alleanza dunque e non Concentrazione... Il problema morale [ ad un certo momento] si identifica con quello giuridico: la libertà deve trovare le sue istituzioni storiche. Quali devono essere gli istituti dell'autonomia? Il problema in Italia è particolarmente arduo: problema di rivoluzione in un paese senza eredità politiche... Noi dobbiamo creare assieme e forma e contenuto e ci troviamo dinanzi a un vuoto attuale, e staccati con un salto da ogni passato... Contro il fascismo dobbiamo suscitare lo spirito libertario e nel medesimo tempo negarlo dandogli una forma: dobbiamo creare uno stato coi mezzi dell'anarchia. Una soluzione di continuità esiste... tra noi e gli istituti che avevano rappresentato, prima del fascismo,degli stati di equilibrio provvisorio: parlamenti, partiti, organizzazioni operaie ecc. ... Certamente si potrà parlare di "Parlamenti" in Italia solo se essi non rappresenteranno più l'unico modo di espressione politica;se la compagine sociale sarà differenziata nei più vari modi di rappresentanza diretta; se si saranno creati gli istituti della autonomia,sia come differenziazione sociale che come divisione locale. La centralizzazione corrisponde al totalitarismo e come questo è nemico della libertà, l'altro lo è dell'unità nazionale ... In questo senso si potrà parlare di "unità" soltanto quando saranno sorti e fioriti organismi locali indipendenti." Ginsburg, nella sua riflessione sull'autonomismo, non aveva potuto fare a meno di trovarsi di fronte l'anarchismo. Con una conoscenza molto superficiale di questa corrente, aveva messo onestamente sul tappeto la contraddizione di fondo di quelli che, come lui, erano costretti ad auspicare soluzioni libertarie ma non riuscivano a immaginare soluzioni coerentemente antistatali: "dobbiamo creare lo stato coi mezzi dell'anarchia"! E in fondo sarà questa la contraddizione che Rosselli cercherà di gestire e superare negli anni successivi. Certo è che il saggio di Ginsburg non solo apriva la strada a posizioni decisamente federalistiche ma addirittura ad un ripensamento sul patrimonio culturale del movimento libertario come patrimonio generale della sinistra storica italiana,tutto da riscoprire e da rielaborare in quella che si considerava una nuova sinistra. Non credo che sia del tutto fortuito che su questa linea si fosse già mosso il fratello di Carlo Rosselli, Nello. Uno storico di razza che già nel 1927 aveva pubblicato il primo studio sulle implicazioni per l'Italia postunitaria dell'aspro scontro tra "Mazzini e Bakunin". Proprio in quel 1932 dava alle stampe un altro studio fondamentale in materia: "Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano". Carlo Rosselli nel secondo numero dei "Quaderni"(marzo 1932), sosteneva infine una ideale linea diretta tra la sua "Giustizia e Libertà" e la libertaria "Libertà e Giustizia". "Ci riferiamo ad una antenata ideale - scriveva con qualche più che perdonabile inesattezza storica - e cioè all'associazione "Libertà e Giustizia" fondata da Bakunin a Napoli nell'estate del 1865 e che era la manifestazione in forma pubblica della segreta e famosa "Fratellanza" dell'agitatore russo... Tuttavia il programma di "Libertà e Giustizia" in un punto diremmo che quasi si identifichi col nostro perché concerne il problema che il popolo italiano non risolse mai neppure provvisoriamente e che il fascismo, il quale in parte è effetto della sua mancata soluzione, ha esasperato fino all'iperbole: il problema della distruzione dello "Stato centralista,burocratico e militare", ossia il problema autonomico... Perciò ci è piaciuto ricordare "Libertà e Giustizia" e... Bakunin". Sebbene il Programma pubblicato sui "Quaderni" fosse il frutto di un già lungo dibattito tra i gruppi di GL in Francia e quelli clandestini in Italia, le precisazioni sui vari punti riaccesero le molte e sostanziali differenziazioni interne. Aspre le critiche di Lussu e di altri gruppi; eppure, malgrado queste opposizioni, la linea vincente fu quella di Rosselli e di Ginzburg. Una linea che sboccò inevitabilmente nella frattura con la Concentrazione e nell'incontro con i libertari. E questo non solo sul piano del dibattito ideologico ma su quello degli accordi politici. Xlll-Verso l'intesa tra anarchici e giellisti La Concentrazione non potè che sciogliersi nella primavera del 1934. Allora il PSI ritrovò, dopo più di dieci anni di lotta senza quartiere, un terreno d'intesa col PCdl, che dal canto suo, fu costretto alla riconciliazione dalla nuova politica di Mosca dei "fronti popolari". Né il PSI avrebbe avuto molte altre scelte. Abituato, come era, a non muoversi esclusivamente con le proprie gambe, aveva ricevuto un colpo tremendo dalla caduta della socialdemocrazia tedesca. La presa del potere di Hitler a Berlino aveva scosso Stalin a tal punto da fargli recuperare improvvisamente la dimensione "pacifista e progressista" delle democrazie liberali influenzate dalla socialdemocrazia occidentale. La politica staliniana è quella di trovare un terreno di incontro con tutte le forze statali e "democratiche" antinaziste e di circoscrivere ed eliminare quelle "eretiche"di una sinistra da lui incontrollabile e peggio possibile preda di Troski. In questa situazione GL,ormai isolata nell'area marxista,si muove per trovare consensi negli ambienti libertari e nelle frange rivoluzionarie repubblicane. Ad un certo punto la propaganda di GL, o meglio di Rosselli è talmente pressante sugli anarchici che Berneri, alla fine del '35, crede venuto il momento di puntualizzare gli elementi di convergenza e quelli di frizione: "Caro Rosselli, L'antitesi [della futura rivoluzione] che mi pare non presumibile, come tu dici, bensì inevitabile, sarà: comunismo dispotico centralizzatore o socialismo federalista liberale. Dal 1919 in poi non mi sono stancato di agitare in seno al movimento anarchico il problema di conciliare l'integralismo educativo e il possibilismo politico... mi pare [quindi] che la discussione possa essere impostata non sui residui tradizionalisti dell'anarchismo, bensì su quanto di vivo, ossia di razionale e attuale, voi vedete nell'anarchismo contemporaneo. Noi e voi abbiamo di fronte il problema di come imprimere alla rivoluzione italiana un indirizzo autonomista in politica e socialista liberista in economia. Per il momento mi limito alla prima questione per chiedervi di formulare in modo chiaro il senso della .."repubblica democratica organizzata sulla base delle più ampie autonomie locali e sulle istituzioni autonome della classe lavoratrice". Non ti nascondo che dopo il soviettismo leninista si è trasformato nello stato bolscevico che ha negato il primo completamente, attribuisco ai programmi un valore molto relativo... Il sinistrismo del programma fascista del '19 ha ingannato molti, ma non era deliberatamente ingannatore. Il giellismo che attualmente, in molte sue formule e in molti suoi atteggiamenti, è vicino all'anarchismo può allontanarsene in una situazione di compromesso a dispetto dei suoi dirigenti e di parte dei suoi quadri. Non vi attribuisco tenebrose manovre ma non considero il vostro movimento abbastanza omogeneo nella sua formazione ed abbastanza elaborato nel suo programma per rinunciare a riserve attuali e a preoccuparmi per l'avvenire. Non sono per esempio certo che siate federalisti e propendo a considerarvi degli autonomisti unitari a colorazione federalista legalitaria... Il giellismo teoricamente equidistante dall'autonomismo unitario e dal federalismo libertario, mi pare destinato ad essere... Federalista di fronte all'unitarismo "giacobino" [in questo caso socialcomunista] qualora questi si sia reso o stia per rendersi padrone dello Stato o... autonomista unitario se la rivoluzione l'abbia portato ad un ruolo governativo. Nel primo caso ci incontreremo; nel secondo ci incontreremo egualmente, ma come avversari. Il giellismo non. .[agirà in un modo o nell'altro]. ..per volgare camaleontismo, bensì perché a condizionare il suo atteggiamento saranno le diverse situazioni politiche..." Infine Berneri arrivava al nocciolo delle diffidenze sue, come dei più esperti elementi deN'anarchismo,verso l'improvvisa conversione libertaria di GL: "Soltanto una aprioristica volontà di astensione dal ruolo governativo ed una radicata concezione della rivoluzione permanente potrebbero far escludere la previsione di un opportunismo giellista nel corso della rivoluzione italiana" Una valutazione alla quale Rosselli rispose, a suo avviso, in modo inequivocabile. Una risposta alla quale gli anarchici pensarono di dare il credito dovuto a qualsiasi tentativo libertario. "Berneri conferma autorevolmente la nostra interpretazione dell'anarchismo collettivista come "socialismo federalista liberale" e riconosce la necessità che gli anarchici abbiano a prendere posizione domani in una concreta situazione rivoluzionaria, per far trionfare soluzioni di libertà su soluzioni di dittatura. È un primo punto, ma è il punto decisivo. I socialisti ed i comunisti anarchici, in Italia sono numerosi, contano nei loro gruppi forti individualità; e se sapranno domani accettare le responsabilità non solo dell'azione (il che è certo) ma anche della ricostruzione, potranno esercitare una notevole influenza contribuendo anche a correggere le deviazioni di altri movimenti a loro affini... Berneri ha pieno diritto di esigere chiarimenti sul nostro federalismo e autonomismo. Telegraficamente direi (uso il condizionale, alcune di queste idee essendo personali): 1) che per GL il federalismo politico territoriale è un aspetto e una implicazione del più generale concetto di "autonomia" a cui il nostro movimento si richiama: cioè libertà positivamente affermata, per singoli e gruppi, in una concezione pluralistica dell'organizzazione sociale. 2) che la regione storica, utile ai fini politici amministrativi, può diventare mortifera a fini economici e culturali, la regione agricola non coincidendo con la regione storica, la regione industriale variando da industria ad industria e quasi sempre superando i confini dello stesso stato Federale. Perciò anche in materia di regioni: pluralismo, elasticità. 3) che, specie dopo il fascismo, anziché rivalutare la patria regione, bisognerà sforzarci di superare o allargare la patria nazionale, in cui si asfissia, facendola coincidere con la nozione di patria umana o di umanità, espressione di valori essenziali, comuni a tutti gli uomini, indipendentemente dal sangue, dal territorio, dalla lingua, dalla storia. 4) che gli organi vivi dell'autonomia non sono gli organi burocratici, indiretti in cui l'elemento coattivo prevale, ma gli organi di primo grado, diretti, liberi o con un alto grado di spontaneità, alla vita dei quali l'individuo partecipa direttamente o è in grado di controllare. Quindi il Comune, organo territoriale, che in Italia ha salde radici e funzioni. Il Consiglio di Fabbrica e di Azienda Agricola, organo o uno degli organi dei produttori associati, la Cooperativa,organo dei consumatori, le Camere del Lavoro, i Sindacati, le Leghe, organi di protezione e di cultura professionale, i Partiti, i Gruppi, i Giornali, organi di vita politica, La Scuola, la Famiglia, i Gruppi Sportivi, i Centri di Cultura, e le innumerevoli altre forme di libera associazione, organi di vita civile. 5) che è partendo da queste istituzioni nuove o rinnovate, legate fra loro da una complessa serie di rapporti, e la cui esistenza dovrà essere presidiata dalle più larghe libertà di associazione,di stampa,di riunione,di lingua, di cultura,che si arriverà a costruire uno stato federativo orientato nel senso della libertà, cioè una società socialista federalista liberale. 6) che il concetto di autonomia deve valere non solo per domani ma anche per l'oggi; non solo per la ricostruzione ma per la lotta che dovrà condursi secondo questi criteri: Autonomia alla base, cioè iniziativa dei gruppi locali in Italia e all'estero, e Federazione al centro: cioè Alleanza Rivoluzionaria. Sarebbe opportuno che su questi problemi vitali il dialogo a due si trasformasse in discussione generale". A quel momento infatti sul tappeto non c'era solo un dibattito teorico. C'era il problema di concretizzare quell'Alleanza Rivoluzionaria che tanto premeva a Rosselli e renderla immediatamente operativa. Siamo alla fine del 1935, Mussolini sembra impantanato in Etiopia. Una sconfitta in Africa,come la storia si sperava confortasse, avrebbe aperto la crisi del regime ed i fuoriusciti giellisti ed anarchici volevano essere pronti a rientrare, armi alla mano e con idee chiare sul che fare e su chi allearsi. Ed a questo erano dovuti gli interventi espliciti di Berneri e di Rosselli. Nel novembre gli anarchici si trovarono a convegno a Saurtroville, una delle periferie di Parigi. Il" Primo Convegno di Intesa degli Anarchici Emigrati in Europa" che vedesse presenti tutte le tendenze e le sfumature dopo più di dieci anni. Un convegno organizzato minuziosamente sia a livello politico che programmatico, le relazioni investivano tutti i problemi in campo. Il succo delle decisioni allora prese si può riassumere in questi termini: Ritorno e armato al primo segnale di crisi del regime. Una volta tornati nel paese, 1) Ritardare il più possibile soluzioni anche parziali di governi "democratici" 2) Assumersi tutte le responsabilità del caso nei vari Comuni liberati, nella Fabbriche ecc, dovunque fosse possibile, senza curarsi se altrove la situazione non era altrettanto favorevole. 3) Nemico primo il fascismo ma al pari il comunismo bolscevico col quale non era possibile alcuna intesa. Intese circoscritte con altri raggruppamenti politici che avessero tendenze federaliste e comunaliste, in primis GL. Il Convegno nominava un Comitato d'Azione Anarchica allo scopo proprio di tenere i contatti con gli altri elementi vicini oltre quello di cominciare a rifornirsi di armi. La guerra in Etiopia finì velocemente e con l'inaspettata vittoria fascista, ma le basi per un accordo tra anarchici e GL erano ormai gettate e trovarono prestissimo un collaudo operativo negli avvenimenti di Spagna, che ancora una volta dopo le sintonie ottocentesche, tornavano a coinvolgere profondamente la sinistra italiana. XIV- Rivoluzione libertaria e guerra antifascista in Spagna Il 19 luglio del 1936, il generale Francisco Franco attaccava la esangue Repubblica Spagnola. A bloccarlo non è l'esercito repubblicano di cui Franco è un generale, sono gli anarcosindacalisti della Catalogna, del Paese Valenziano, dell'Aragona. Già il 20 Barcellona è nelle mani degli anarchici e con loro inizia la rivoluzione libertaria ed autonomista. Le fabbriche, le ferrovie, la centrale telefonicaje amministrazioni locali ed i servizi vengono autogestiti. Abolita la moneta e sostituita con un complesso quanto efficace sistema di compensazioni. L'esercito di popolo viene organizzato in colonne, dirette emanazioni delle strutture produttive e civili federatesi. È la rivoluzione contro il fascismo ed il suo centralismo impersonati da Franco, ma implicitamente è anche la rivoluzione contro la democrazia formale ed il nuovo centralismo di questajmpersonato dall'inetto e repressivo governo del Fronte Popolare di Madrid. In sostanza è la rivoluzione autogestionaria e federalista sognata da più di mezzo secolo che si è fatta realtà. Il 1 maggio precedente si era riunito a Saragozza il IV Congresso nazionale della CNT. In quindici giorni i delegati di quasi seicentomila iscritti, avevano elaborato un programma per la rivoluzione, non quella che sarebbe arrivata chissà quando, ma quella che stavano preparando per il il giorno dopo. Del resto non ci voleva tanto a capirlo che era alle porte:il governo emanava leggi impotenti, la vita sociale era già nelle mani dei lavoratori, l'esercito preparava impunemente il colpo di stato. È in questo clima che il congresso aveva approvato, tra gli altri, questi documenti: "Finito il primo aspetto violento della rivoluzione [data come certa] si dichiareranno aboliti: la proprietà privata, lo Stato, il principio di autorità e di conseguenza, le classi che dividono gli uomini in sfruttatori e sfruttati, oppressori ed oppressi... L'espressione politica della nostra rivoluzione può essere riassunta in questa trilogia: L'INDIVIDUO, LA COMUNE, LA FEDERAZIONE... In conclusione proponiamo : La creazione della comune come entità politica ed amministrativa. La comune sarà autonoma e confederata alle altre comuni. Le comuni si confedereranno localmente e regionalmente, fissando a loro piacimento i propri confini geografici, quando sia conveniente riunire in una sola comune, piccoli paesi, borgate e villaggi. L'insieme di queste comuni costituirà una Confederazione iberica di comuni autonome libertarie." Ed era su questi obbiettivi che i lavoratori spagnoli si erano mossi nelle giornate di luglio. Ma così anche gli obbiettivi dell'antifascismo degli anarchici italiani e di quello libertario di Rosselli perdono la consistenza della carta stampata per assumere la concretezza di una rivoluzione in atto. Altro che rassegnazione a vedere chi sa quando una rivoluzione anarchica, come aveva ipotizzato Berneri dieci anni prima. In quell'estate l'entusiasmo è alle stelle. Già il 29 luglio proprio Berneri, su mandato degli anarchici italiani raggiunge Barcellona. Rosselli per proprio conto ha fatto la stessa scelta e vi arriva pochi giorni dopo. L'accordo tra i due movimenti era ormai nella natura delle cose. Il 19 agosto la prima Colonna Italiana, inquadrata nella colonna anarchica Ascaso, esce in parata da Barcellona diretta al fronte di Huesca. Il 28 ha il battesimo del fuoco; a Monte Pelato riesce a respingere i reparti franchisti, che le muovevano addosso con l'appoggio di mezzi blindati. Malgrado lo scontro costi sei morti e una diecina di feriti, grande è l'entusiasmo degli italiani che finalmente possono battersi armi alla mano e degli stessi spagnoli che non si sentono più soli. La colonna italiana era allora composta da circa 120 uomini, di cui un'ottantina di anarchici, una ventina di giellisti ed il resto repubblicani ed irregolari del socialismo e del comunismo. Comandante militare il repubblicano Mario Angeloni,che però moriva proprio a Monte pelato, vice comandante Rosselli, Commissario Politico: Berneri. A ben guardare era l'intera area dell'autonomismo federalista, mentre quella statalista dei socialisti e dei comunisti, aspetterà che Mosca appoggi il governo parlamentaristico di Madrid per muoversi formando le Brigate Internazionali. Allora, in quella Spagna divorata dalla guerra civile, si manifestò come non mai la contraddizione di fondo tra il federalismo e l'autogestione di impostazione anarchica da una parte e quelli puramente libertari dall'altra per non parlare dello scontro con l'autonomismo unitario ed il centralismo democratico. Quelle impostazioni si rivelarono come modi di lotta al fascismo assolutamente inconciliabili tanto da spezzare in due l'anarchismo spagnolo e distruggere l'alleanza tra giellisti ed anarchici italiani. I primi sintomi della crisi furono già in settembre quando il governo di Madrid cominciò a parlare di militarizzare le colonne e, malgrado la sua debolezza, incontrò scarsa opposizione da parte della stampa della CNT. II 4 novembre, di fronte all'offensiva franchista sulla capitale, i vertici della CNT e della FAI, dopo aver rifiutato la proposta di Durruti di sbaraccare definitivamente il governo di Madrid e di prendere in mano l'intera situazione, non trovano di meglio che partecipare al nuovo gabinetto costituito da Largo Caballero,non a caso esponente della sinistra radicale del socialismo spagnolo," il Lenin di Spagna". Quei vertici davano così al governo repubblicano la prima legittimazione popolare da quando Franco si era sollevato. Le organizzazioni confederali di base seppero di essere, loro malgrado, "al governo" dalla stampa e questo nel momento meno indicato. Due giorni dopo, infatti, il nuovo governo abbandonava la capitale. Solo per la presenza dei rappresentanti Confederali non venne fucilato per tradimento dagli anarchici catalani della "Columna de Hierro" schierati a difesa di Valenzia. La scelta ministeriale dei vertici della CNT e della FAI, seppure condizionata dalla grave situazione militare ed arrivata improvvisa e dirompente,veniva comunque da lontano. All'interno della CNT erano sempre convissute, e non in modo sempre pacifico, due anime: quella sindacalista e quella anarchica. Anche e soprattutto il Congresso di Saragozza aveva preso atto di questa situazione: "Tutte le delegazioni che assistono a questo Congresso, sanno bene che nel seno della CNT si agitano, con notevole dinamismo, due maniere di interpretare il senso della vita e la base strutturale dell'economia postrivoluzionaria... Questa commissione, con la serenità e la coscienza necessarie per esaminare ed assumere la responsabilità storica di questo importante momento, ha dovuto cercare la formula che raccolga lo spirito e le idee delle due correnti, articolando con ciò i fondamenti della nuova vita. Per questo dichiariamo che: Primo: nel porre la pietra angolare dell'architettura della rivoluzione, abbiamo cercato di costruire con austero senso d'armonia, questi due pilastri: individuo e sindacato, lasciando spazio allo svolgimento parallelo delle due correnti e concezioni. Secondo: per garantire autenticamente questa intesa, noi riconosciamo la sovranità individuale. Con essa, che difende la libertà al di sopra di qualsiasi dottrina limitante, dovranno armonizzarsi le diverse istituzioni che nella vita devono determinare ciò che è necessario, stabilendo conformemente il proprio indirizzo... È così che l'individuo sarà,nella nuova società,cellula con personalità giuridica ed entità base delle successive articolazioni create dalla libera potestà della Federazione. ..[d'altronde si ammoniva] la Rivoluzione non può reggersi né sul mutuo appoggio, né sulla solidarietà né sull'argomento consunto della carità. In tutti i casi queste tre formule... devono rifondersi e puntualizzarsi in nuove norme di convivenza sociale che trovano la più chiara interpretazione nel comunismo libertario: dare a ciascun essere umano ciò che gli necessita secondo le sue esigenze, senza altra limitazione a quella necessità se non quelle imposte dalla nuova economia creata." Su questo sforzo di armonizzare le esigenze anarchiche, e quelle libertarie - sindacaliste , al Congresso di Saragozza la CNT articola un radicalissimo programma di rivoluzione sociale, ma allo stesso tempo riconferma come suo segretario generale Horacio Prieto che si era dimesso proprio perché contrario a quel programma. Prieto non crede ad una rivoluzione proletaria così radicale e non ne fa mistero. Per lui al massimo è possibile una rivoluzione direi quasi liberalpopolare, dove le istituzioni, sotto al spinta proletaria si sarebbero democratizzate al massimo esprimendo anche l'ansia di rinnovamento di una parte della borghesia, e dove il mondo del lavoro, ormai entrato a pieno diritto nella gestione politica nazionale, avrebbe avuto un enorme e nuovo peso, attraverso i suoi istituti autogestionari ma soprattutto attraverso la CNT che era il suo storico modo di organizzarsi. In altri termini,durante la rivoluzione la CNT ha come segretario generale un esponente che alla rivoluzione pienamente libertaria non crede. Anche quando ormai l'avrà sotto gli occhi, continuerà a vederla in termini di nuovi equilibri "nazionali", tra Confederazione ed Istituzioni, tra Spagna ed il resto degli Stati europei. Non solo, già nel 1927 gli anarchici, fino ad allora parte integrante della CNT, avevano sentito l'esigenza di costituirsi in gruppo specifico, la FAI iberica, proprio per contrastare le impostazioni esclusivamente sindacaliste, sulle base delle quali l'allora segretario della CNT, Angel Pestana, poteva civettare con il dittatore Primo de Rivera. Gli animatori della FAI erano stati Durruti, Francisco Ascaso, Garcia Oliver. Dieci anni passati nelle Americhe e in Europa tra una espropriazione e l'altra, tra un tentativo di eliminare il monarca spagnolo e di organizzare grandi imprese culturali. Ma anche al loro interno, nell'imminenza della rivoluzione, erano venute a galla due anime:in questo caso, quella anarchica e quella, più o meno inconsapevolmente, "bolscevica". Le differenti linee vennero ben espresse nella preparazione del Congresso di Saragozza quando Garcia Oliver sostenne la necessità di creare una vera e propria organizzazione militare nell'imminenza dello scontro, mentre Durruti sostenne la necessità di organizzarsi per la guerriglia. E non era un problema tecnico, come sottolineò Durruti: "Certo che la teoria di Garcia Oliver è più efficace, dal punto di vista dell'organizzazione militare, della guerriglia che io sostengo. Ma sono sicuro che codesta organizzazione paramilitare,giustamente e in nome della sua efficenza, porterà all'insuccesso della rivoluzione, perché questo organismo comincerà ad imporsi, sempre in nome dell'efficenza, eserciterà una sua autorità e finirà per imporre il suo potere sulla rivoluzione. In nome dell'efficenza i bolscevichi assassinarono la rivoluzione russa,cosa che sicuramente non volevano, ma era fatale che così finisse. Lasciamo che la nostra rivoluzione di sviluppi per le sue strade". Il sindacato al quale Oliver e Durruti appartenevano e al quale si rivolgevano nel loro dibattito approvò a larga maggioranza la posizione di Oliver con questa mozione:"! gruppi di azione della CNT e i gruppi anarchici costituiranno una organizzazione nazionale di difesa che partendo dal gruppo, formerà la centuria, unità base dell'Esercito proletario". Quella mozione venne battuta al Congresso di Saragozza che sul problema della "difesa della Rivoluzione" si pronunciò in questi termini: Ogni Comune tenga il suo armamento ed i suoi elementi di difesa... Questa mobilitazione generale comprenderà tutte le persone di ambo i sessi idonee alla lotta e che vi si appresteranno addestrandosi alle molteplici tecniche e mansioni che comporta il combattimento". Il congresso dunque aveva scelto diversamente dalle impostazioni di Oliver ma ha ragione Abel Paz che ne sottolinea l'importanza perchè"prefigura l'organizzazione che le milizie cercheranno di darsi quando si arrivò allo stallo della guerra civile". In realtà sia all'interno della FAI che della CNT le due linee erano andate per la loro strada fin dal primo momento della rivoluzione. Allora nelle zone repubblicane il potere reale fu subito nelle mani dei lavoratori organizzati ma i centri di governo, pur ormai impotenti, non vennero aboliti. Durruti partiva per Saragozza colla sua colonna ma a Barcellona rimaneva Oliver che organizzava le milizie secondo schemi militari. Le officine erano espropriate ed autogestite al pari delle amministrazioni ma rimaneva la "Guardia Civil" e Prieto guardava a Madrid. Il tutto in un equilibrio che non poteva durare a lungo. Quando la linea "realista"del segretario della CNT si incontrò con quella "efficentista" di Oliver,con la benedizione di intellettuali o di figure storiche molto amati dai lavoratori, come la Montseny e Juan Peirò,fu nella logica delle cose che cercasse di prevalere. Il risultato era stato l'annuncio alle 22 e 30 del 4 novembre 1 936 del nuovo Governo Caballero con la partecipazione degli anarchici! Oliver alla Giustizia, Peirò all'Industria, Lopez Sanchez al Commercio e Montseny alla Sanità. XV- 1 nodi tornano al pettine: la rottura tra GL e gli anarchici italiani Il 6 novembre Rosselli scriveva con "Catalogna,baluardo della rivoluzione" il suo articolo più elogiativo dell'anarcosindacalismo catalano e proprio per la sua scelta governativa: "Il pessimismo che domina in molti ambienti amici mi sembra ingiustificato o esagerato. Se Madrid è accerchiata, se il Sud è in buona parte in mano ai ribelli, tutto il litorale mediterraneo, tutta la Catalogna sono entusiasticamente repubblicani. La Catalogna da sola significa il 24 per cento della popolazione, la metà della ricchezza, i tre quarti dell'industria e del commercio spagnuoli. (purtroppo la Catalogna difetta di industria pesante e di munizioni). Sul fronte aragonese a 350 km dal mare attacca un importante esercito catalano che ogni giorno migliora in disciplina ed efficenza. Franco è a 20 km da Madrid ma Durruti a 15 km da Saragozza, la più importante piazzaforte spagnola... La Catalogna è il paese dove tutte le forze rivoluzionarie si sono unite su un concreto programma socialista sindacale: socializzazione delle grandi industrie e dei latifondi... rispetto delle piccole proprietà e delle piccole imprese, controllo operaio. Il programma reca la firma della CNT - la potente organizzazione sindacalista anarchica - e della UGT, l'organizzazione socialista. È stato adottato dalla "Esquerra catalana". È un programma di governo. Perché questo è importante; alla direzione della nuova Catalogna si trovano oggi anche gli anarchici. Il sindacalismo anarchico, diffamato, misconosciuto, sta rivelando grandi virtù costruttive... Rivoluzionari dottrinari, riformisti della lettera,uomini della II e III internazionale,governanti di Madrid che storcete la bocca quando si parla dell'anarchismo catalano, ricordatevi il 1920 luglio a Barcellona: uno dei migliori generali della Spagna, Goded,aveva preparato scientificamente l'assassinio della Catalogna. 40 mila uomini della guarnigione occupano di sorpresa i punti strategici. Barcellona è teoricamente caduta. Ma Barcellona è la CNT. Sono migliaia gli operai rivoluzionari,di capi giovani e volitivi ai quali si è insegnato che la rivoluzione non è opera né della Storia, né dell'Economia, né del Partito, né del Comitato; è opera del singolo, che porta in sé tutte le possibilità e le responsabilità dell'avvenire. In un attimo questi operai,questi uomini, ammaestrati dalla lezione dell'aprile '31 e soprattutto dell'ottobre '34, si gettano nella mischia; attaccano le mitragliatrici, i cannoni con misere rivoltelle, coltelli, camions. In poche ore il fascismo feudale è spazzato. Tutta la Catalogna è libera. E dopo una settimana le prime colonne di popolani armati prendono l'offensiva in Aragona. Concludo come ho cominciato: la Catalogna tiene in mano i destini della Spagna e della rivoluzione. In un mese potrà armare 300.000 uomini e vincere. Perché non l'ha già fatto? Perché è stata se non boicottata, trascurata. Il socialismo madrileno, accerchiato, ha continuato ad inseguire il suo centralismo unitario, mentre a Barcellona non arrivavano che le briciole. Il socialismo, il comunismo internazionale guardavano con preoccupazione questa creatura eterodossa. Ora per fortuna tutto ciò sta per mutare. Garcia Oliver, arrestato e torturato sotto la Repubblica,oggi fa parte del governo di Madrid, insieme ad altri tre compagni della CNT. Si potranno perdere ancora battaglie, ma si vincerà la guerra". Di tutt'altro avviso furono subito gli anarchici italiani. Altro che spontaneismo, la difesa di Barcellona era stata programmata,organizzata e sostenuta da una solidissima rete di autonomie reali anche se clandestine, formatesi e mantenutesi in anni e anni di lotta. Erano state queste che , sotto la guida al momento ancora concorde di Durruti,di Francisco Ascaso e di Oliver, a permettere la vittoria su Goded e ad aprire la via alla rivoluzione anarchica. La morte di Ascaso nell'assalto di Barcellona era stata la prima perdita irreparabile date le sue capacità di mediazione e sintesi. Ben conoscendo questa realtà e le tendenze interne al mondo libertario spagnolo,gli anarchici italiani si erano opposti subito a qualsiasi sintomo di svolta statalista a cominciare dalla ventilata militarizzazione delle milizie. Per loro la militarizzazione, presentata appunto come problema tecnico di rendere più efficaci, le colonne, era un problema squisitamente politico,anzi il problema sostanziale. Si tornava a Pisacane; "nazione" armata oppure esercito statale con tutto quello che le due impostazioni comportavano. Al di là dell'ottusa restaurazione di una gerarchia burocratica,della reintroduzione di un soldo e per di più differenziato, voleva dire tagliare il rapporto organico dei miliziani con le realtà sociali; quartieri, fabbriche,sindacato,di cui le colonne erano diretta emanazione e che li armavano e sostenevano. Voleva dire porre fine alla rivoluzione sociale ed autonomista per passare alla logica della guerra di stato, alla logica dei fronti popolari dall'alto. Gli anarchici della colonna quasi costrinsero Berneri a lasciare il fronte per Barcellona con il compito di far sentire la opposizione degli italiani a simili tendenze. Berneri tornò a Barcellona. Di fronte alle possibilità in atto dell'anarchia abbandona ogni "efficientismo" libertario. Già il 9 ottobre riusciva a pubblicare il primo numero di "Guerra di classe" come organo dell'USL E vi cominciò una lucida battaglia contro la militarizzazione non solo delle milizie ma dell'intero scontro sociale e contro le serpeggianti tentazioni "ministerialiste". Secondo Berneri, tra le innegabili carenze delle colonne e la militarizzazione,tra la dispersione produttiva e la statizzazione deH'economia,tra la frammentazione amministrativa ed un governo centrale a partecipazione anarchica,c'erano altre possibili soluzioni. Soluzioni che potevano, dovevano, mantenere il principio della trasmissione dal basso verso l'alto e quello dell'autogestione orizzontale. Era dovere storico degli anarchici, se necessario di individuarne di nuove e di correggere ed ampliare quelle esistenti ma non di buttarle a mare in nome di una guerra che era ancora ben lontana da essere perduta. È il momento che Berneri assume il ruolo di portavoce di quanto, in gran parte dietro il suo stimolo ma coralmente, gli anarchici italiani erano andati elaborando i quindici anni di esilio. Sul versante spagnolo, ad aver ben capito la situazione era Durruti, ormai al culmine del suo prestigio. Al comando di una colonna forte di migliaia di miliziani, nel giro di un mese, aveva liberato e socializzato mezza Aragona ed era alle porte di Saragozza. Proprio per aver compreso il problema si spostò con gran parte dei suoi su Madrid: una volta ricacciato il nemico e saldamente presente nella capitale avrebbe potuto affrontare le svolte in atto nel mondo libertario. Il 13 novembre entrava con la colonna in Madrid, accolto come un liberatore al grido di "Viva Madrid senza governo". Il giorno stesso da battaglia, ma il 19 cadeva ucciso da un colpo di cui ancora oggi non è conosciuta la provenienza. La perdita di un leader di tale capacità e prestigio fu probabilmente irreparabile per la rivoluzione anarchica e autonomica. Mosca non trovava resistenza alle condizioni che poneva per aiutare Madrid: Consegna dell'intero e cospicuo tesoro di stato come cauzione per le future forniture militari, revoca delle socializzazioni fatte ed in fase di attuazione, centralizzazione del comando militare e della polizia politica,sotto la direzione di "specialisti"del Komintern. Negli stessi giorni la "Pravda" annunciava che:"ln Catalogna è già cominciata la pulizia dai trozkisti e dagli anarcosindacalisti". In vero la situazione in Spagna era ancora ben lontana da essere sotto il controllo di Stalin ma certo i suoi agenti, allora guidati da Togliatti e Vidali ne stavano gettando le basi. Eppure nemmeno questo scuote Rosselli dal suo appoggio alla svolta statalista dei vertici della CNT. La frattura con gli anarchici italiani diventa inevitabile. A fine novembre,dopo la sfortunata battaglia di Almudevar, gli anarchici della colonna si riorganizzano in proprio ed espellono di fatto i giellisti. Fanno in pratica una scelta di fondo tra rivoluzione anarchica ed in quanto tale anche antifascista e guerra antifascista. Rosselli cerca allora di organizzare una propria formazione, la "Matteotti" ma senza successo. Lui il sostenitore della Catalogna come baluardo della rivoluzione,fa confluire i suoi nelle Brigate Internazionali, le "giberne di Stalin" come le definì Berneri. a sostegno di Madrid, sempre più infeudata a Mosca. In questo quadro i dubbi espressi da Berneri alla fine del '35, riguardo alPopportunismo" dei giellisti, sembrano quasi profetici. L'entusiasmo dei giellisti per le creazioni sociali dal basso, per il federalismo, per il movimentismo, rimanevano in una costruzione intellettuale e liberale, non ancorata ad una "aprioristica volontà di astensione dal ruolo governativo" e a una "radicata concezione della rivoluzione permanente". Né d'altronde gli anarchici italiani la potevano pretendere né la pretesero da GL,quando mezzo anarcosindacalismo spagnolo si era buttato sulla scorciatoia governativa. I limiti della vicinanza tra il federalismo e le autogestioni libertarie e quelle anarchiche era apparso in tutti i suoi aspetti. XVI- La fine delle esperienze autonomistiche e federaliste Berneri non era stato con le mani in mano. Aveva cercato alleati in campo internazionale. A questo scopo era intervenuto appassionatamente al convegno dell'AIT, convocato di tutta fretta a Parigi il 15 e 16 novembre proprio per capire cosa succedeva in Spagna. Questa la bozza della risoluzione, veramente dura e lucida, che cercò di far passare a quel congresso: "Il Congresso dell'AIT... constatato che la rivoluzione spagnola corre il rischio di cadere sotto il controllo politico del governo di Madrid, della Genralidad di Catalogna, dei partiti marxisti e di Mosca; constatando d'altra parte che la collaborazione governativa della CNT e della FAI non costituendo una garanzia che possa compensare la scomparsa del Comitato centrale delle Milizie e la non creazione del Comitato Nazionale di Difesa, compromette gravemente il ruolo della CNT e della FAI in Spagna e l'anarcosindacalismo nel mondo intero, propone alla CNT questa piattaforma di rivendicazioni immediate: 1) Riforma del Consiglio d'Economia di Catalogna sul principio della rappresentanza sindacale (CNT-UGT) e sull'esclusione dei rappresentanti governativi e politici. 2) Ricostituzione del Comitato centrale delle Milizie di Catalogna e istituzione di un Consiglio Nazionale di Difesa controllato dalla CNT e UGT. 3) Riforma della costituzione delle municipalità catalane sul piano del comunalismo libertario. 4) Scioglimento (dissoluzione) della Guardia Civile e del corpo delle Guardie d'assalto 5) Destituzione del Corpo diplomatico e ricostituzione fatta dal Consiglio Nazionale di Difesa. 6) Demilitarizzazione completa dell'esercito, che dovrebbe essere sostituito dalle Milizie sindacali...." Berneri si era logicamente mosso anche e sopratutto tra gli spagnoli. All'inizio aveva trovato un atteggiamento quasi di sufficienza. Francisco Ascaso era morto sulle barricate di luglio, Durruti era al fronte, a Barcellona operavano Oliver e De Santillan e molti erano convinti che il problema primo era sconfiggere Franco e poi forti della loro enorme presenza avrebbero sistemato tutto. L'atteggiamento era però cominciato a cambiare dopo la morte di Durruti e lo scivolone filomoscovita del Governo. Allora le idee degli italiani avevano cominciato a trovare autorevole auditorio nelle crescenti inquietudini degli spagnoli. In seno alla FAI si era organizzato un gruppo dal significativo nome di "Los amigos de Durruti" con un proprio periodico spietatamente critico sulla conduzione delle cose. Sempre su posizioni critiche stava emergendo con vitalità autonoma la "Juventud Libertaria". Berneri prende contatti politici con questi elementi e con il fratello di Francisco Ascaso, Domingo ,il comandante della colonna di Huesca. Nell'aprile del'37 la colonna italiana rifiuta la militarizzazione, ormai legge della Repubblica, si autoscioglie e torna a Barcellona. Qui ripiega anche la colonna Ascaso dopo nove mesi filati di lotta al fronte. Il 27 aprile i reduci italiani e spagnoli si incontrano alla caserma Malatesta. Dalla animatissima discussione emerge la sensazione che in Catalogna si sia alla vigilia di un nuovo colpo di stato,questa volta da parte stalinista,contro gli organismi di autogestione. Avevano visto giusto. Il 14 aprile Berneri aveva pubblicato su "Guerra di Classe" una lunga ed articolata "Lettera aperta alla compagna Montseny". Non era stata una semplice lettera aperta ad una compagna della FAI al governo, ritenuta particolarmente sensibile ai problemi della rivoluzione. Quella lettera era stata una vera e propria mozione di sfiducia ai vertici della CNT ed una proposta politica alternativa alla loro scelta governativa. Se non accettata, la Catalogna avrebbe ripreso la sua strada. A rispondere non fu né la Montseny né gli altri anarchici al governo ma il Komintern. Il 3 maggio 1937 le forze di polizia assoldate da Mosca cercano di occupare i punti chiave di Barcellona. Gli va male. Alla Telefonica,che è il ganglio vitale delle comunicazioni strategiche,gli anarchici le respingono e subito hanno il sostegno dell'intera città. La seconda battaglia di Barcellona dura dal 3 al 6 maggio. Il 5 i mercenari del PC si trovano dovunque a mal partito. Allora intervengono i vertici della CNT ed Oliver che, invece di permettere alle inferocite colonne che avevano seguito Durruti in Aragona di convergere su Barcellona per far piazza pulita degli stalinisti, mediano, mediano e mediano. I comunisti si sarebbero ritirati e la Catalogna avrebbe continuato a marciare con la Repubblica. L'importante era mantenere l'unità al fronte, non bisognava far credere di sabotarlo. Alla sera del 6 riescono ad aver credito. Quella notte gli ultimi a lasciare le posizioni furono gli anarchici italiani ma con la rabbia in corpo. Una rabbia che esplose ma impotente quando fu chiaro l'insensatezza degli accordi stipulati dai vertici della CNT. II 7 maggio gli anarchici potevano contare le perdite, ancora più pesanti delle giornate di luglio: circa 500 morti e 1400 feriti. E poi fu evidente che la battaglia era servita anche di copertura al Komintern per liquidare tutti gli esponenti dell'opposizione di sinistra. Ad un angolo delle Ramblas furono trovati, assassinati alle spalle, Berneri con Francesco Barbieri che gli faceva da guardia del corpo. Assassinato anche Domingo Ascaso e in una fossa comune cadaveri a decine dei militanti della Juventud Libertaria. Nel frattempo migliaia dei mercenari di Mosca sbarcavano a Barcellona protetti dai cannoni della flotta repubblicana. Una flotta che finalmente serviva a qualche cosa visto che non aveva sparato un colpo contro le navi ed i sommergibili di Mussolini. Ed era solo l'inizio, i comunisti, a differenza dei vertici della CNT non ebbero remore a distogliere dal fronte alcune divisioni che, al comando del generale Lister, entrarono in Aragona per spazzare via le autogestioni libertarie. Fu quello l'ultimo atto della normalizzazione. Voluta dai comunisti e tollerata dai vertici della CNT-FAI. Nel campo dell'antifascismo italiano segnaliamo "il Grido del Popolo" di Parigi, organo ufficiale del PCI, che il 20 maggio pubblicava testualmente: " Camillo Berneri, uno dei dirigenti degli Amici di Durruti, che, esautorato dalla direzione stessa della FAI iberica, ha provocato il sanguinoso sollevamento contro il governo del fronte popolare della Catalogna, è stato giustiziato dalla Rivoluzione democratica a cui nessun antifascista può negare il diritto della legittima difesa". Anche il "Nuovo Avanti!", organo ufficiale del PSI guidato da Nenni, non è molto da meno ed intitola: "Al Palo i Traditori". Ma quello che a mio parere da il segno, almeno in campo italiano, della impossibilità di comprensione, di fondo, tra gli anarchici ed i fautori del sia pur minimo stato, al momento del dunque, è dato dall'atteggiamento di Rosselli e di GL. "La notizia degli avvenimenti di Barcellona pose dei gravi problemi di coscienza a Carlo Rosselli ed ai suoi.[ è l'agiografo di Carlo Rosselli, Aldo Garosci, a parlare] Non solo i legami con il sindacalismo catalano erano troppo cari e troppo recenti (è vero che un Garcia Oliver era intervenuto per mettere fine all'insurrezione; quindi a questa era stato avverso) ma era chiaro che la rivoluzione faceva posto alla guerra. In più come primo atto, l'antifascismo italiano si trovava dinanzi all'assassinio di Camillo Berneri, che poteva aver avuto con GL gravi contrasti e la cui posizione negli ultimi tempi era parsa ai dirigenti del movimento fondamentalmente e gravemente errata, ma che era non di meno un antifascista caduto in un conflitto civile. Per gli anarchici Berneri è un martire; ciò che non è per GL,essendo caduto in difesa non dell'antifascismo, ma di un ideale particolare, ma pur resta un assassinato e, anche in guerra civile, sono questi i fatti dinanzi ai quali la coscienza si adombra... La prima reazione di Rosselli di fronte ai fatti di Barcellona consiste nell'assieme nel tenersi aderente agli eventi, senza lasciarsi allontanare dalla guerra spagnola, ma anche senza consentire idealmente alla tesi della repressione. ...D'altra parte la vittoria contro l'insurrezione non diede ai comunisti il controllo della situazione "nel modo" che sarebbe stato loro necessario per vincere la guerra. Certo, poco dopo repressa la rivolta di Barcellona, essi eliminarono Caballero e i ministri anarchici. La loro influenza aumentò grandemente in tutto lo stato spagnolo; fu assassinato Nyn, e processati i membri del POUM, che era stato sciolto. Ma si dovette continuare a tollerare l'esistenza della CNT, perché sopprimendola si sarebbero soppressi molti dei motivi essenziali della resistenza operaia di mezza Spagna; l'impressione data non fu di maggiore solidità ed aggressività, ma di maggior debolezza... I fatti di maggio... segnarono effettivamente la fine della fase più spontanea della rivoluzione spagnola, durante la quale furono date le parole d'ordine più affascinanti, si realizzarono le più importanti conquiste, si appassionò il proletariato mondiale e si ebbero gli afflussi di volontari." Valutazioni, anche solo da un punto di vista filologico, sconcertanti. Ne segnalo solo una: Berneri non è un martire per GL perchè non è morto per l'antifascismo ma per una sua idea. Dove era finito l'autonomismo? Dove era finita l'"ora di tutte le eresie"? Rosselli aveva lasciato solo Berneri e gli anarchici italiani credendo di trovare impostazioni di più ampio respiro nelle grandi forze operative dei ministerialisti che ben riassumevano la sua idea , libertaria ma non antistatale. Rimase anche lui solo, nella sua strategia politica aveva scelto la parte perdente. Se Berneri era stato assassinato dagli stalinisti, Rosselli gli sopravviverà ben poco. Il 15 giugno, in Normandia, veniva trucidato assieme al fratello Nello, da un commando di fascisti francesi, ma personalmente non credo che ciò sarebbe avvenuto se ormai non fosse stato più solo. Una concatenazione enigmatica ed insieme emblematica. Lo scontro antifascista e non solo in Spagna stava ormai passando sul piano degli equilibri internazionali,gestito dagli stati in quanto tali:macchine di guerra centralizzate e totalizzanti del vivere civile. Sembra quasi che per gli "irregolari" non ci fosse più posto. 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